Aspettative: un concetto non del tutto scontato. Certo, se ci fermiamo soltanto sul significato della parola italiana sappiamo orientarci abbastanza bene, ma quando cominciamo ad addentrarci nelle implicazioni psicologico-relazionali delle aspettative, tutto cambia.
Il loro potere può essere devastante, dal momento in cui possono arrivare a decretare la morte di un rapporto per “mancanza di ossigeno”. Pensiamo bene a cosa vuol dire aspettarsi qualcosa da qualcuno, prendiamo come esempio alcune relazioni tipo: quella che lega due partner, il rapporto con noi stessi, quello tra genitori e figli, quello lavorativo tra colleghi o ancora tra superiore e sottoposti o insegnante e alunni.
Perché ho scelto soltanto esempi di relazioni “profonde”? Perché maggiore è il coinvolgimento, maggiori saranno le aspettative… è un vero e proprio paradosso: più teniamo a qualcuno, più aumenta il rischio che la relazione si deteriori. Diamo però una forma a questa visione apparentemente pessimistica.
Partiamo con il capire “che cosa” ci si può aspettare in una relazione: dei comportamenti, delle attenzioni, emozioni magari… In ogni caso “aspettarsi” qualcosa è ben diverso dal “credere” in qualcuno. Nel primo caso è come se fossimo costantemente in attesa che qualcosa accada (e spesso il presupposto emotivo alla base di questo atteggiamento è che, se ciò non accade, “ci rimaniamo male”); credere in qualcuno invece significa essere intimamente convinti delle potenzialità dell’altra persona (o di noi stessi) e sapere che l’altro può farcela.
È una questione di verbi modali allora: le aspettative ci fanno sentire che l’altrodovrebbe fare/pensare/provare qualcosa, credere nell’altro ci trasmette la fiducia che l’altro potrebbe raggiungere un risultato.
Nel primo caso il rapporto si carica di un fardello emotivo oneroso per entrambe le parti: chi nutre le aspettative vive nella perenne attesa che succeda qualcosa (che puntualmente sembra non arrivare mai…), la persona che dovrebbe soddisfare le aspettative invece avverte (più o meno consapevolmente) l’insoddisfazione di fondo dell’altro. In questo caso le reazioni prevalenti sono due: da un lato potrà esserci la “rottura”, dall’altro un logorante senso di inadeguatezza. Vediamo insieme cosa vuol dire…
Mettiamo il caso che una madre nutra delle aspettative nei confronti del rendimento scolastico della figlia, alla quale peraltro la madre è legata da un rapporto d’amore sincero. Il genitore, in questo caso, ha già un buon livello di consapevolezza relazionale e per questo tende a non manifestare apertamente le proprie aspettative alla ragazza. Ma è davvero possibile che queste non giungano, anche solo come sensazione di fondo, alla figlia? Poco probabile… e allora la ragazza potrebbe reagire in due modi: il primo comporta un “allontanamento”; reagendo contro le “richieste” (anche indirette) della madre, andrà avanti per la sua strada. Cosa accade? Senso di colpa da una parte e delusione dall’altra.
Il secondo modo di reagire potrebbe comportare un perenne tentativo di adempiere alle aspettative in ballo, ma abbiamo visto che le aspettative sono create in modo da essere puntualmente deluse o solo momentaneamente soddisfatte. In questo caso avremo frustrazione e senso di inadeguatezza da una parte e indebolimento dell’autonomia emotiva dall’altro (nel senso che il piccolo “contentino” che giunge dal tentativo di soddisfare l’aspettativa, non fa altro che alimentare il sistema, rinforzando il legame emotivo di dipendenza che c’è tra le parti).
“Ma Alberto, vuoi dire che un genitore non dovrebbe preoccuparsi del rendimento scolastico del figlio?”. Non proprio, anzi, tutto il contrario. Distinguiamo perciò gliobiettivi dalle aspettative. I primi sono concordati (dal momento in cui coinvolgono e riguardano un’altra persona) e, spesso, dichiarati. Le aspettative invece non sono obiettivi specifici, ma una sorta di sottofondo emotivo. Desiderare un buon rendimento scolastico per il figlio è più che legittimo (e ancora più auspicabile è credere nelle sue potenzialità); aspettarsi quei risultati vuol dire ben altro, cioè innescare il meccanismo psicologico che abbiamo descritto prima.
Quando parlo di questo argomento con gli insegnanti, incontro di solito molte resistenze: il loro ruolo prevede che vi sia un monitoraggio attivo del rendimento degli alunni. Ma aver chiari gli obiettivi didattici è ben diverso che trascorrere l’anno scolastico con l’aspettativa (spesso delusa) che i ragazzi si comportino in un determinato modo.
Se volessimo collocare visivamente gli obiettivi e le aspettative, potremmo immaginare i primi come il punto di arrivo, le seconde come l’atteggiamento di fondo che accompagna e appesantisce chi va verso l’obiettivo.
L’ideale sarebbe aver ben chiari i propri obiettivi e muoversi nella loro direzione spogli di ogni aspettativa.
Questo, tra l’altro, ci consentirebbe di reagire nel modo migliore di fronte ad una possibile “caduta” o “deviazione” dall’obiettivo: non ne resteremo delusi, ma sapremo rimetterci in marcia verso quello che desideriamo ottenere.
Ho impiegato un bel po’ a scrivere questo articolo… non è stato semplicissimo mettere nero su bianco questi pensieri.
Spero che tu possa coglierne gli aspetti più utili, per te e per le tue relazioni.
Oppure avrei dovuto dirti “Mi aspetto che tu ne colga gli aspetti più utili…”?
Cambiano molto le sensazioni tra il primo e il secondo caso, vero?