E’ bene che l’opinione pubblica più in generale, e i
genitori e gli studenti della scuola in particolare, sappiano le conseguenze
che comporterebbe la deprecabile approvazione, da parte del Parlamento,
dell’art. 3 del cosiddetto Disegno di “Legge di stabilità 2013”, presentato dal
Governo Monti e attualmente in discussione alla Camera.
Si tratta, in buona sostanza - e tralasciando tutte le altre
nefandezze previste per la scuola - di ciò che, sui media, viene indicato come
l’aumento dell’orario di lavoro (a retribuzione invariata) dei docenti delle
scuole medie, inferiori e superiori, da 18 a 24 ore settimanali.
Ora, premesso che le 18 ore di cui trattasi si riferiscono
soltanto alle cosiddette “lezioni frontali”, e che quindi non tengono in alcun
conto del tempo che i docenti dedicano alle operazioni necessariamente
correlate alle lezioni frontali e cioè: preparazione delle lezioni,
preparazione dei compiti scritti, correzione dei compiti, ricevimento dei
genitori, riunioni di consigli di classe e collegio dei docenti, riunioni di
dipartimento e di commissioni, scrutini e esami di stato, riunione e
partecipazione ad attività extrascolastiche (visite guidate, viaggi
d’istruzione, orientamento, progetti per l’arricchimento e l’ampliamento
dell’offerta formativa, ecc.), gli aspetti più sconvolgenti che un eventuale
aumento di ben 6 ore di orario settimanale (con tutto quel che ne consegue in
termini di tempo in più da dedicare alle attività sopra elencate), sarebbero i
seguenti:
1) innanzitutto
una lesione del principio costituzionale dell’eguaglianza (art. 3 della
Costituzione). In effetti si può anche comprendere che, in determinate
circostanze di grave difficoltà per l’intero Paese, il Governo possa chiedere
ai cittadini di lavorare un certo numero di ore in più, non retribuite,
finalizzate al ristabilimento dei conti pubblici e alla ripresa dell’economia.
Ma perché chiedere, anzi imporre dall’alto senza alcuna contrattazione, tale
“contributo di solidarietà sociale” ad una sola categoria di lavoratori? Perché
non chiederlo a tutte le categorie, come sarebbe più giusto ed accettabile?
2) in secondo
luogo la lesione ad un principio fondamentale della nostra civiltà giuridica,
quel principio che stabilisce che, a parità di prestazione lavorativa,
corrisponda un compenso commisurato alla quantità effettiva di lavoro
effettuato (art. 23 della Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo,
approvata dall’ONU il 10 dicembre 1948). Fu in nome di questo principio che, il
4 e il 5 agosto del 1789, i membri dell’Assemblea Costituente francese (ex
Assemblea degli Stati Generali) abolirono con due decreti i cosiddetti “diritti
feudali”, i diritti vantati dai nobili nei confronti dei contadini. Tra questi
diritti, di origine medievale, quelli più odiati dai contadini erano le
cosiddette “corvèes”, vale a dire prestazioni di lavoro gratuite nei campi
gestiti direttamente dal signore feudale. Dopo di allora nessuno, in un paese
occidentale, ha mai più osato richiamare in vita le corvèes; nessuno,
ovviamente, prima del Governo Monti. L’aspetto più stupefacente è che questo
Governo è formato da professori universitari, cioè persone che, per la loro
formazione, dovrebbero ben conoscere i principi e la storia e l’evoluzione
della nostra civiltà giuridica; persone, oltretutto, che sostengono di voler
modernizzare e rendere competitivo il Paese. Modernizzare significa ritornare
al Medioevo? Di fronte a questo paradossale e anacronistico “ritorno al
passato” non si può non insorgere, e non soltanto noi professori che siamo i
soggetti direttamente colpiti da questo insensato provvedimento, ma tutti
coloro che hanno a cuore la civiltà. Anche perché, se passano le corvèes per i
professori, chi ci garantisce che, nel prossimo futuro, non saranno estese
anche ad ogni altra categoria? E i giovani in procinto di entrare sul mercato
del lavoro, quanti anni di corvèes assolute (cioè lunghi periodi di lavoro
iniziale privi del tutto di retribuzione) dovranno sopportare prima di poter
vedere un misero salario?
3) In terzo
luogo, l’aumento dell’orario a 24 ore, oltre a comportare la perdita di altri
30.000 posti di lavoro (tutti quei colleghi precari che adesso garantiscono la
copertura dei cosiddetti spezzoni di cattedra) significherebbe un colpo
tremendo per la qualità della scuola. Immaginate, infatti, un docente costretto
a fare 24 ore di lezioni frontali, seguite da altre 20-24 ore di attività
correlate, senza oltretutto essere retribuito per l’enorme carico di
plus-lavoro, con un contratto bloccato dal 2009, con gli scatti di anzianità
bloccati fino al 2017, con uno stipendio quindi eroso dall’inflazione e dalle
aumentate aliquote IRPEF regionali e comunali, con l’aumento fino a 6 anni
dell’età pensionabile (per effetto della Riforma Fornero sulle pensioni);
ebbene: cosa potete aspettarvi da questo “povero cristo” maltrattato e
frustrato, malpagato e deriso? Una migliore e più competitiva qualità
didattica? Come può il ministro Profumo dichiarare, impunemente, che i
provvedimenti che il Governo sta varando “tendono alla valorizzazione della
professione docente”? Questi provvedimenti, in realtà, significano una cosa
sola: la morte definitiva della scuola pubblica, a tutto vantaggio della scuola
privata, alla quale, tra l’altro, lo stesso disegno di legge di stabilità,
assicura per il 2013 altri 233 milioni di euro. Si toglie alla scuola pubblica,
si regala alla scuola privata. Operazione degna di un moderno Robin Hood alla
rovescia (si toglie ai poveri per donare ai ricchi).
Ecco perché la lotta dei professori contro questo iniquo
provvedimento dovrebbe essere sostenuta e diventare la lotta di tutti gli
italiani che hanno a cuore le sorti del Paese: sono in gioco principi
costituzionali, principi di civiltà giuridica, il futuro dei nostri giovani. In
un Paese dove vengono calpestati, in una volta sola, i diritti fondamentali dei
cittadini, il futuro dei giovani e l’istruzione, tutto può venire calpestato,
anche le più elementari libertà. Evitiamolo.
di Francesco Sirleto (docente liceo classico Benedetto da Norcia) -23/10/2012