Lo sport nazionale preferito da
certi politici -ultimamente praticato con successo anche dai tecnici- sembra
il “tiro al bersaglio dei giovani”, una gara senza regole ad offendere,
umiliare, bistrattare un’intera generazione (ieri sconsideratamente cresciuta a
“pane e televisione”, oggi maldestramente rabbonita con “bastoni e carote”!).
In questo surreale clima mi
sono spinto ad analizzare un po’ più a fondo le
cause ricorrenti del disagio giovanile, di quella cd.
“generazione Y” frettolosamente liquidata dal premier Monti come
“perduta”.
Gaspare Serra
SOMMARIO:
1-L’ITALIA? NON UN PAESE PER GIOVANI…
2-ITALIA, REPUBBLICA “AFFONDATA” SUL LAVORO: L’ALLARME
DISOCCUPAZIONE
3-GENERAZIONE PERDUTA: IL DRAMMA DELLA DISOCCUPAZIONE
GIOVANILE
4-GIOVANI IN “STAND-BY”: IL FENOMENO DEI “NEET”
5-ETERNI MAMMONI? IL FENOMENO DEI “BAMBOCCIONI”
6-I “DIVERSAMENTE OCCUPATI”: GLI STAGISTI
7-VITE PRECARIE: “GENERAZIONE 1.000 EURO”
8-L’ULTIMA SPIAGGIA: LA FUGA DEI “CERVELLI”
9-L’“EQUAZIONE PERFETTA” PER USCIRE DALLA CRISI
L’ITALIA? NON UN PAESE PER GIOVANI…
Saranno forse “non + disposti a tutto” -ricalcando un noto
slogan sindacale- ma i giovani italiani dovranno al più
presto farsi le ossa per crescere in un Paese di “lupi travestiti
d’agnello”, pronti a sbatterli sommariamente sul banco degli accusati.
◆ Vivete
coi genitori? “Ma che bamboccioni!” (le parole paterne
dell’ex ministro Padoa Schioppa);
◇ Siete dei “Neet”? “Ma che lazzaroni!” (il pensiero tagliente di Vittorio Feltri, firma storica del giornalismo italiano);
◆ Non siete ancora laureati? “Ma che sfigati!” (il commento pungente del viceministro Martone);
◇ Siete alla ricerca di prima occupazione? “Ma andate ai mercati a scaricare cassette!” (l’invito fraterno dell’ex ministro Brunetta);
◆ Cercate un lavoro? “Non siate choosy, per carità!” (l’esortazione spocchiosa del ministro Fornero);
◇ Volete un consiglio? “L’agricoltura rende le persone sempre giovani…” (altro suggerimento materno di ElsaFornero);
◆ Non trovate lavoro? “È ovvio, lo cercate accanto a mammà!” (lo sfogo seccato del ministro Cancellieri);
◇ Ancora non lavorate? “Che poveri disgraziati!” (sempre parole di Renato Brunetta);
◆ Siete precari? “Semplicemente l’Italia peggiore!” (altra perla di saggezza dell’on. Brunetta);
◇ Guadagnate appena 500 euro al mese? “Ma quanto siete sfigati…” (la chiosa dell’on. Straquadagno);
◆ Cercate un posto fisso? “Ma che monotonia…” (il pensiero borioso del premier Monti);
◇ Lo avete trovato, ma nel pubblico impiego? “I soliti fannulloni!” (la sintesi ideale del Brunetta-pensiero);
◆ Lo state ancora cercando, non più giovanissimi? “Che generazione perduta…” (la conclusione pilatesca del senator Monti…).
◇ Siete dei “Neet”? “Ma che lazzaroni!” (il pensiero tagliente di Vittorio Feltri, firma storica del giornalismo italiano);
◆ Non siete ancora laureati? “Ma che sfigati!” (il commento pungente del viceministro Martone);
◇ Siete alla ricerca di prima occupazione? “Ma andate ai mercati a scaricare cassette!” (l’invito fraterno dell’ex ministro Brunetta);
◆ Cercate un lavoro? “Non siate choosy, per carità!” (l’esortazione spocchiosa del ministro Fornero);
◇ Volete un consiglio? “L’agricoltura rende le persone sempre giovani…” (altro suggerimento materno di ElsaFornero);
◆ Non trovate lavoro? “È ovvio, lo cercate accanto a mammà!” (lo sfogo seccato del ministro Cancellieri);
◇ Ancora non lavorate? “Che poveri disgraziati!” (sempre parole di Renato Brunetta);
◆ Siete precari? “Semplicemente l’Italia peggiore!” (altra perla di saggezza dell’on. Brunetta);
◇ Guadagnate appena 500 euro al mese? “Ma quanto siete sfigati…” (la chiosa dell’on. Straquadagno);
◆ Cercate un posto fisso? “Ma che monotonia…” (il pensiero borioso del premier Monti);
◇ Lo avete trovato, ma nel pubblico impiego? “I soliti fannulloni!” (la sintesi ideale del Brunetta-pensiero);
◆ Lo state ancora cercando, non più giovanissimi? “Che generazione perduta…” (la conclusione pilatesca del senator Monti…).
Al bando ogni senilismo demagogico o
giovanilismo di comodo, è solare che sia facile scovare, nel mucchio
dell’intera “generazione Y” nata a cavallo tra gli anni ‘80 e
’90, adolescenti viziati e menefreghisti, pronti a prendersela col
mondo intero pur di non assumersi le proprie responsabilità; studenti
parcheggiati all’università, che preferiscono vivere di rendita piuttosto
che cercarsi un lavoro; giovani fannulloni impiegati nella pubblica
amministrazione i quali, conquistato il “posto fisso”, ripongono il
minimo impegno nel proprio lavoro.
Di “mele marce” se ne trovano in qualsiasi
paniere: chi fa politica, anzi, ha meno autorità di chicchessia nel
dare lezioni di morale…
Esiste, però, un’Italia
“per bene” di cui andare fieri: una “meglio gioventù”, silenziosa ma pur
sempre maggioritaria,che tutti i giorni si fa in quattro per formarsi al
meglio nelle nostre università, per mantenersi in qualche modonegli
studi o per farsi strada nel mondo del lavoro puntando sulle proprie
forze.
È accettabile, allora, che
lo sport nazionale preferito da certi politici -ultimamente praticato
con successo anche dai tecnici- sia divenuto il “tiro al bersaglio dei
giovani”, una gara senza regole ad offendere, umiliare, bistrattare
un’intera generazione (ieri sconsideratamente cresciuta a “pane e televisione”,
oggi maldestramente rabbonita con “bastoni e carote”)?
Il ministro del Lavoro ha esortato i giovani ad
“accontentarsi” nella ricerca di prima occupazione.
Il vero problema, semmai, è che ci si accontenta fin troppo: i più non sono affatto “schizzinosi”, né nella ricerca del primo né del secondo, terzo od ennesimo lavoro!
Il 71% dei giovani under 35 è disponibile ad accettare qualsiasi lavoro, purché remunerato: solo il 20% preferisce aspettare il posto che lo soddisfi al meglio (fonte Cisl).
Il vero problema, semmai, è che ci si accontenta fin troppo: i più non sono affatto “schizzinosi”, né nella ricerca del primo né del secondo, terzo od ennesimo lavoro!
Il 71% dei giovani under 35 è disponibile ad accettare qualsiasi lavoro, purché remunerato: solo il 20% preferisce aspettare il posto che lo soddisfi al meglio (fonte Cisl).
Chiedere quantomeno d’essere pagati,
fosse anche per il più umile mestiere, vuol forse dire
esser “choosy”?
Un recentissimo studio di Bankitalia, inoltre, ha rivelato che, tra i giovani entrati
nel mondo del lavoro tra il 2009 e il 2011:
◆ il
25% dei laureati si è adatto benissimo a svolgere un’occupazione con bassa o
nessuna qualifica, più dei propri coetanei tedeschi (in Germania il dato scende
al 18%);
◇ oltre
il 30%, invece, svolge un’occupazione del tutto diversa da quella per la quale
ha studiato.
Forse il mondo reale assume tutt’altro aspetto
dall’alto di una cattedra…
Prendersela con Elsa Fornero, però, è come sparare sulla croce rossa, avendo il Ministro già abbondantemente dato prova -dopo le sue prime “lacrime di coccodrillo” - di aver la stessa sensibilità di un procione in calore!
Non si tratta forse della medesima persona che si è rivolta ai malati di Sla con queste parole: “Anche la vita da ministro è dura…”?!
Liquidare il problema dei giovani senza lavoro con un “vadano a scaricare la frutta al mercato”, poi, è quanto di più banale e demagogico si possa affermare.
Prendersela con Elsa Fornero, però, è come sparare sulla croce rossa, avendo il Ministro già abbondantemente dato prova -dopo le sue prime “lacrime di coccodrillo” - di aver la stessa sensibilità di un procione in calore!
Non si tratta forse della medesima persona che si è rivolta ai malati di Sla con queste parole: “Anche la vita da ministro è dura…”?!
Liquidare il problema dei giovani senza lavoro con un “vadano a scaricare la frutta al mercato”, poi, è quanto di più banale e demagogico si possa affermare.
Qual è la funzione della Politica?
Preparare sommessamente i
giovani “al peggio” oppure tentare di offrir loro opportunità, ricercando
qualsiasi soluzione per sciogliere i nodi e lacciuoli che legano il mercato del
lavoro e bloccano l’economia?
Qua è il compito di un ministro del Lavoro?
Invitare i ragazzi a competere con la
manodopera rumena e la manovalanza tunisina o stimolarli a misurarsi con i
giovani ingegneri indiani e i nuovi imprenditori cinesi?
Se s’inculca nei giovani la convinzione che il
lavoro serva soltanto a guadagnarsi da vivere e “portare a
casa lo stipendio”, non anche a realizzarsi e mettere in campo le proprie
capacità, come stupirsi del fatto che i laureati diminuiscono sempre di
più, mentre crescono gli inattivi e gli sfiduciati?
Se s’inibisce nei giovani finanche la capacità di sognare un
futuro migliore, che ne sarà di loro?
L’impressione è che, dietro queste ripetute
“gaffe”, si celi una strategia ben mirata: la
ricerca dell’“alibi perfetto” per sottacere le gravi responsabilità di
un’intera classe dirigente nell’affrontare i problemi della mancanza
di occupazione, crescita e sviluppo, che certo non dipendono solo da fattori
esogeni (l’assenza di un’Europa politica, la crisi finanziaria internazionale o
la congiuntura economica sfavorevole).
Un esempio chiarificatore?
Tra il 1999 ed il 2007 l’Italia ha beneficiato
del c.d. “dividendo dell’euro”, ovvero di bassi
tassi d’interesse sul debito pubblico che hanno consentito di
risparmiare centinaia di miliardi (secondo alcuni economisti,
addirittura “100 miliardi” di euro all’anno).
Un enorme “tesoretto” che, se oculatamente speso in politiche
d’investimento e affiancato da riforme strutturali, avrebbe consentito
all’Italia di essere tra i paesi più virtuosi d’Europa, piuttosto che tra gli
stati “pigs” citati come modello negativo persino nella campagna elettorale
americana.
Di chi la responsabilità se l’Italia negli anni
Duemila ha “dilapidato” queste risorse?
Se in capo ad ogni italiano grava un debito pubblico di
oltre “30.000 euro”, in termini assoluti il terzo al mondo (tra il 1950 e
il 1969 la media del debito pubblico in rapporto al Pil era del 30%, oggi ha
sfondato quota 126%)?
Se la spesa pubblica è lievitata a dismisura (nel 1950 si
attestava sotto il 25% in rapporto al Pil, oggi supera il 50%)?
Se la pubblica amministrazione è divenuta un ente erogatore
di stipendi, piuttosto che di servizi (Sicilia docet)?
Se il nostro regime tributario è il più opprimente al mondo
(nel 1951 la pressione fiscale era del 18,2%, oggi supera il 55%)?
Se i costi del lavoro e dell’energia sono nettamente più alti
della media europea?
Se le ultime grandi imprese italiane (vedi la Fiat) e le
poche multinazionali straniere presenti (vedi l’Alcoa) pagherebbero penali pur
di delocalizzare?
Se la corruzione ci costa “60 miliardi” di euro l’anno,
mentre l’evasione fiscale il doppio?
Di chi la responsabilità se l’Italia si è
ridotta ad un Paese “a corto di futuro”, con il cappio al collo del
debito e la pistola dei mercati alla tempia?
Tutto questo è forse imputabile ai giovani che
solo oggi si affacciano sul mercato del lavoro,
magari illusi che il mondo reale non fosse poi così distante da quello
rappresentato da “mamma Tv”?
È colpa dei giovani italiani se un loro coetaneo su tre è
senza lavoro?
Se la loro generazione è divenuta “precaria” per antonomasia?
Se l’ingresso nel mercato del lavoro solitamente passa
attraverso la scorciatoia obbligata di un’occupazione in nero e senza tutele?
Se il mondo delle professioni è chiuso a camera stagna da
caste autoreferenziali, mentre il mercato del lavoro è drogato dal precariato?
Se gli stipendi degli italiani sono in media i più bassi
d’Europa, per molti insufficienti a garantire una piena indipendenza economica
dalla famiglia d’origine?
Se molti di loro -i migliori o i più audaci- preferiscono
scappare all’estero piuttosto che accontentarsi di un lavoro tanto
dequalificato quanto malpagato?
Su un punto ha perfettamente ragione il viceministro
Martone: essere giovani in Italia vuol dire aver ricevuto in dote dalla
sorte una “sfiga” pazzesca!
A chi il compito di indicare una
qualche via d’uscita, “una luce in fondo al tunnel”?
A una classe politica “novecentesca”, la stessa che fin oggi
ha scavato la fossa sotto i piedi dei propri figli?
Ad un governo tecnico -il più sobrio degli ultimi 150 anni-
che, definendo “perduta” la generazione dei 30/40enni, ha già giudicato spacciati
un quinto dei cittadini che rappresenta?
Che futuro può avere un Paese che, piuttosto
che riconoscere i giovani come un “organo vitale” del Sistema, li liquida sbrigativamente come
un “arto in cancrena” da amputare per salvare il resto del Corpo
sociale?
ITALIA, REPUBBLICA “AFFONDATA” SUL LAVORO: L’ALLARME
DISOCCUPAZIONE
Articolo 1 della
Costituzione: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul
lavoro…”.
Si, ma quale?
La Repubblica italiana pare piuttosto “affondare” sul
lavoro: un lavoro che sempre più manca, si fa “nero” o diviene precario.
Secondo gli ultimi dati Eurostat:
◆ nell’Eurozona (nell’area
dei 17 paesi che adottano l’Euro) la disoccupazione è salita a
settembre all’11,6% (appena un anno prima si fermava solo al
10,3%);
◇ in
tutti i 27 stati dell’Unione, i senza lavoro hanno raggiunto quota 10,6%
(contro il 9,8% del’anno precedente);
◆ in
un solo mese, il numero di disoccupati è salito di 169 mila unità nell’Ue
a 27 (di 146 mila nel’’Eurozona);
◇ in
un solo anno, i senza lavoro sono cresciuti di 2,145 milioni
di unità nell’intera Ue (2,174 milioni solo nell’area della moneta
unica);
◆ in
termini assoluti, l’esercito di disoccupati ha raggiunto quota 25,751
milioni in Europa (18,49 milioni solo nell’Eurozona).
E in Italia?
Nel nostro Paese, il tasso di disoccupazione ha
raggiunto il 10,8% (fonte Istat):
◆ a
far peggio di noi i paesi più direttamente travolti dalla crisi finanziaria del
2008 (Irlanda 15,1%), i paesi del sud Europa più colpiti dalla crisi dei debiti
sovrani del 2010 (Spagna 25,8%, Grecia 25,1% e Portogallo 15,7%) ed i paesi
dell’Est europeo (Lettonia 15,9%, Slovacchia 13,9%, Bulgaria 12,4% e Lituania
12,9%);
◇ a
far nettamente meglio, invece, i paesi del nord Europa e dello “zoccolo duro”
europeo (Danimarca 8,1%, Gran Bretagna 7,9%, Finlandia 7,9%, Svezia 7,8%,
Belgio 7,4%, Germania 5,4%, Olanda 5,4%, Lussemburgo 5,2% ed Austria 4,4%).
L’Italia, così, si pone apparentemente in una posizione
mediana: a fronte di quasi 23 milioni di occupati (pari al 56,9% della
popolazione attiva), sono “2,8 milioni” i disoccupati: “554 mila” unità
in più in un solo anno.
Per intendersi, è come se nel 2012 tutti gli abitanti di una
città come Genova, la sesta più popolosa d’Italia, avessero perso il posto di
lavoro!
Ma, come se non bastasse, questa è solo un’illusione
statistica che nasconde una realtà del “non lavoro” ben più drammatica.
La ragione?
PRIMO:
Annoverando tra
i disoccupati anche coloro che un lavoro hanno smesso di cercarlo -i
cd. “scoraggiati”-, il tasso di disoccupazione salirebbe al
“12,5%”, attestandosi come il sesto più alto
dell’Eurozona (fonte Bce).
SECONDO:
Il “trend” della disoccupazione è allarmante: per il
2013 si prevede che i senza lavoro raggiungeranno i “3 milioni” e sfonderanno
il muro del’11%, giungendo a quota “11,4%” (fonte Istat); tra
il 2011 e il 2020, inoltre, il numero dei disoccupati aumenterà di
oltre “1,5 milioni” di unità (fonte Cnel).
TERZO:
Dal novero ufficiale dei senza lavoro restano
esclusi:
◆ i
cd. “Neet”, giovani che né studiano né si specializzano né cercano
lavoro (oltre “2 milioni” in Italia);
◇ i
giovani che studiano e non lavorano (non a caso in Italia ci si laurea
più tardi che nel resto d’Europa);
◆ le
donne che hanno rinunciato a cercare un lavoro, preferendo dedicarsi a
tempo pieno alla famiglia (non a caso il mercato del lavoro italiano è tra i
più penalizzanti e discriminatori per le donne);
◇ i
cassintegrati, lavoratori dipendenti per il quali il sussidio, il più delle
volte, precede un formale licenziamento (500 mila);
◆ i
precari, tutti coloro che non hanno un contratto a tempo
indeterminato (quasi “4 milioni”);
◇ i
cd. “precari mascherati”, ovvero i falsi collaboratori e le false
partite Iva con un solo committente (circa 400 mila).
In conclusione, allargando la platea dei senza
lavoro a chi un lavoro non lo cerca, lo ha precario o rischia seriamente di
perderlo, si sfiora quota “9 milioni” di italiani!
GENERAZIONE PERDUTA: IL DRAMMA DELLA DISOCCUPAZIONE GIOVANILE
“Giovani e lavoro”. Un ossimoro o un
binomio ancora possibile?
Secondo l’ultimo rapporto di Eurostat (sempre più somigliante a un “bollettino di
guerra” aggiornante il conto dei “caduti dal lavoro”), il quadro occupazionale
si fa sempre più drammatico per i giovani: a settembre, tra gli under
25 il tasso di disoccupazione ha raggiunto quota 23,3% in Europa (contro
il 21% dell’anno scorso) e i giovani disoccupati sono 5,520 milioni nel
Vecchio Continente (3,493 milioni solo nell’Eurozona).
Secondo l’Oil, inoltre, quest’anno la disoccupazione giovanile
raggiungerà quota 12,7% a livello globale, salendo al 17,5% nelle economie
sviluppate.
E in Italia?
Il nostro Paese detiene un primato ben poco
invidiabile nell’Eurozona, raggiungendo il podio della disoccupazione giovanile
collocandosi al terzo posto, insieme al Portogallo, con il
35,1%:
◆ a far peggio di noi solo i cd. stati “pigs”, dove anche più della metà degli under 25 non lavora (54,2% in Spagna e 55,6% in Grecia);
◇ a far nettamente meglio i paesi del centro Europa, dove la disoccupazione giovanile non supera nemmeno la doppia cifra (4,4% in Austria, 5,2% in Lussemburgo, 5,4% in Olanda e Germania).
◆ a far peggio di noi solo i cd. stati “pigs”, dove anche più della metà degli under 25 non lavora (54,2% in Spagna e 55,6% in Grecia);
◇ a far nettamente meglio i paesi del centro Europa, dove la disoccupazione giovanile non supera nemmeno la doppia cifra (4,4% in Austria, 5,2% in Lussemburgo, 5,4% in Olanda e Germania).
Il “tallone d’Achille” del Bel Paese si
conferma, dunque, la mancanza d’impiego fra i più giovani:
circa “2,8 milioni” i senza lavoro (fonte Istat), un
numero pari al totale dei residenti della Capitale!
Se un giovane italiano impiega mediamente 33 mesi
-quasi 3 anni!- per trovare il primo impiego, negli Stati Uniti di
mesi ne bastano cinque (fonte Cerp).
E non fanno ben sperare le previsioni del Cnel,
secondo le quali, tra il 2011 e il 2020, i giovani attivi italiani si
ridurranno di oltre “515 mila” unità.
La disoccupazione giovanile è un fenomeno di
per sé “fisiologico”, dovuto alla maggiore inesperienza e alla
minore ricerca di lavoro da parte dei giovani.
Quando raggiunge simili livelli da “codice
rosso”, però, si è di fronte ad una “patologia del Sistema”, che
non può fronteggiarsi né con dosi massicce di ottimismo né con un arrendevole
fatalismo!
GIOVANI IN “STAND-BY”: IL FENOMENO DEI “NEET”
Una “gioventù bruciata”, senza né arte né parte
e con il futuro alle spalle, sta crescendo in Europa.
La Banca d’Italia li ha definiti “scoraggiati”, l’Istat
“inattivi”, lo Svimez -prendendo in prestito un termine coniato nel Regno
Unito- “Neet” (“not in employment,
education or training”): comunque li si chiami, giovani d’età
compresa tra i 15 e i 29 anni, non iscritti ad alcun percorso
formale di istruzione, non frequentanti alcun corso di formazione, senza
lavoro e rinuncianti a cercarne alcuno.
Quanti sono i Neet?
Nel triennio 2005-2008 erano poco meno di 2 milioni, pari al
20% della popolazione nella stessa fascia d’età; nel 2010 sono saliti a
“2,3 milioni”, circa il 23,4% (fonte Banca d’Italia e Ministero del
Lavoro).
Solo in Bulgaria gli “scoraggiati” sono più
numerosi: in Francia e nel Regno Unito sono il 14,6% della
popolazione giovanile, in Germania appena il 10,7%.
Se i Neet italiani fossero messi tutti insieme,
costituirebbero la seconda città del Paese, essendo pari alla
somma degli abitanti di Napoli e Torino messi insieme: se non si
interviene in tempo a fronteggiarne la crescita, così, il rischio è
che in pochissimo tempo l’immaginaria “città dei Neet” diventi la prima!
I soggetti più a rischio di
trovarsi in tale “limbo”, secondo un’indagine di Eurofound, sono i giovani:
◆ presentanti
delle disabilità (un individuo con disabilità ha il 40% in più delle
possibilità di appartenere a questo gruppo);
◇ con
un background di immigrazione (i giovani
immigrati, rispetto ai coetanei autoctoni, hanno il 70% in più delle
probabilità di diventare Neet);
◆ con
un basso livello di istruzione (o i cui genitori hanno un basso
livello di istruzione);
◇ con
un reddito familiare basso (o con genitori disoccupati);
◆ meridionali (le
città che detengono il primato negativo di giovani che né lavorano né studiano
sono tutte concentrate al Sud: Napoli 37%, Catania 36,4%, Brindisi 36,3% e
Palermo 36,3%).
Perché non si può restare indifferenti?
Per una ragione semplice: i Neet sono il termometro
di un crescente “malessere sociale” che rischia di contagiare tutto il
Sistema!
Il “neetismo” comporta un
enorme costo sociale, legato non solo all’inattività di una parte della
popolazione in età lavorativa ma anche ai sussidi per la disoccupazione e alle
altre forme di sostegno cui tali soggetti necessariamente faranno affidamento.
Secondo Eurofound, nei 21 Paesi membri UE presi in esame, i
costi economici della mancata partecipazione dei Neet al mercato del lavoro ammonterebbero
ad oltre “90 miliardi” di euro l’anno (2 miliardi a settimana): l’inserimento
nel mercato del lavoro di solo il 10 % dei Neet, quindi, comporterebbe un
risparmio di quasi “10 miliardi”.
Solo in Italia, il costo economico dei Neet
supererebbe i “26 miliardi” di euro l’anno, pari all’1,7% del Pil.
Il profilo medio di un Neet fotografato dall’Istat è quello
di un giovane che vive coi genitori, non va al teatro né al cinema, legge meno
dei propri coetanei, non fa sport e naviga poco su internet: dispone ovviamente
di più tempo libero ma, generalmente, lo spreca dormendo, mangiando e lavandosi
di più, guardando la tv, fumando e bevendo molto.
Una generazione “vivacchiante”, sonnecchiante,
apatica, annoiata, nichilista, rassegnata... un po’ fannullona e
bambocciona, eternamente in attesa che improbabili occasioni di lavoro bussino
alla porta…
Ma è giusto “generalizzare”?
È possibile credere che l’Italia sia un Paese con un esercito
di oltre 2 milioni di “fannulloni”?
E la loro sarebbe una “scelta di vita”?
L’impressione è che i veri “sfaccendati” siano
un’esigua minoranza, anche fra i Neet.
Cosa ce lo suggerisce?
◆ I
Neet “disoccupati” sono 729 mila. Ma è corretto giudicare sfaticati chi
semplicemente un lavoro lo ha perso, per di più in un paese profondamente
in crisi come il nostro?
◇ I
Neet “inattivi”, che non si dedicano alla ricerca di un lavoro in
quanto scoraggiati ma disposti a lavorare se solo cogliessero
un’occasione, sono 746 mila. È forse loro la colpa di
vivere in una realtà dove spesso bravura e passione non contano nulla,
piuttosto servono le amicizie o, al limite, l’utilizzo del corpo come merce di
scambio?
◆ I
Neet “non disponibili” al lavoro sono 635 mila. Di questi,
però, quasi la metà (279 mila) rinunciano per dedicarsi a tempo pieno
alla famiglia. È giusto stigmatizzare tale scelta in un Paese che
non offre adeguati servizi alle famiglie ed in cui per le donne è ancor più
difficile trovare lavoro e ottenere una retribuzione dignitosa?
◇ Di
Neet “per scelta” -i veri “scansafatiche”, punto e basta- ne
rimarebbero soli 356 mila: sempre tanti, ma pur sempre lontani
da quota 2 milioni!
Stereotipare i Neet come “fannulloni” non aiuta a comprendere
questa realtà sociale.
Non a caso, secondo l’Oil (Organizzazione internazionale del
lavoro), per molti giovani l’inattività non è una scelta ma il
risultato di scoraggiamento e marginalizzazione, determinato da un insieme
di fattori (la mancanza di qualifiche, problemi di salute e povertà, altre
forme di esclusione sociale...).
Se non si interviene tempestivamente per ridare stimoli e
speranze ad una generazione sfiduciata, il rischio è che presto sia troppo
tardi.
Come sarà possibile disinnescare questa “bomba
sociale” tra 10 o 15 anni, quando i Neet di oggi
non potranno più contare sul sostentamento familiare e saranno troppo vecchi
anche per i lavori più umili e dequalificati?
Che futuro aspetta un’intera generazione senza un lavoro
stabile, una casa e l’opportunità di formarsi una famiglia?
ETERNI MAMMONI? IL FENOMENO DEI “BAMBOCCIONI”
In Giappone li chiamano “parasaito
shinguru” (“single parassiti”), in Germania
“nesthockers” (“quelli che non abbandonano il nido”), in
Francia “Tanguy” (da un omonimo film uscito nel 2001), in
Inghilterra “kippers”(acronimo di “kids in parents pockets eroding retiremen
saving”, tradotto “quelli che restano a casa ed erodono la pensione e i
risparmi dei genitori”).
In Italia è stato il
compianto Padoa Schioppa, nel 2007 ministro dell’Economia, a
coniare l’infelice neologismo “bamboccioni” per definire quei
giovani incapaci di affrancarsi dai genitori, continuando a
vivere sotto il loro stesso tetto ben oltre il termine degli studi e l’ingresso
nel mondo del lavoro.
Da allora, l’interesse verso tale fenomeno sociale
sembra essere cresciuto di pari passo al fenomeno stesso.
Quante sono le vittime di quest’apparente
“sindrome di Peter Pan”?
Più del 31% degli italiani maggiorenni
abita con almeno un genitore: tra i 18-29enni coabita con i genitori il 60,7%,
tra i 30-45enni il 26% (fonte Censis).
Anche se il fenomeno non è esclusivamente italiano, nel
nostro Paese si resta in famiglia fino ad un’età che non ha pari nel resto
d’Europa: in media, 28 anni.
Quando parlò per la prima volta Padoa Schioppa della
necessità di “mandarei bamboccioni fuori di casa”, lo scandalo dei
subprime americani era solo agli inizi.
Tuttavia la crisi economica ha segnato virtualmente uno
spartiacque: se, prima del 15 settembre 2008 (data
del fallimento della Lehman Brothers), la causa dei cd. “mammoni” era
per lo più sociologica (convenienza, pigrizia, riluttanza ad assumersi
responsabilità), adesso la causa è sempre più meramente economica
(bamboccioni lo si è rimasti -o lo si è divenuti- “per necessità”).
Non più solo la “paura del futuro” bensì
le problematicità del presente sono le cause prime della cd. “sindrome del
ritardo”, per cui si esce in età più avanzata dalla scuola e dalla
famiglia.
Disoccupazione, difficoltà ad arrivare a fine mese, impossibilità a pagarsi l’affitto o ad accedere a un mutuo per l’acquisto di una casa: rendersi indipendenti, in questo contesto, è un “lusso” per pochi!
Disoccupazione, difficoltà ad arrivare a fine mese, impossibilità a pagarsi l’affitto o ad accedere a un mutuo per l’acquisto di una casa: rendersi indipendenti, in questo contesto, è un “lusso” per pochi!
La famiglia è
divenuta l’unico welfare efficiente, un provider impeccabile di
servizi e tutele, un modello eccezionale di solidarietà tra generazioni.
Nulla di deprecabile, sennonché, quando la casa natia
diviene più che un’opportunità una prigione, il rischio per giovani disabituati
alle responsabilità della vita è di non riuscire più a venirne fuori!
Come se non bastasse, le famiglie italiane si
stanno progressivamente impoverendo (dati Istat):
◆ mentre
nel 1995 una famiglia riusciva a mettere da parte il 22% delle proprie entrate,
nel 2011 la quota di reddito accantonato si è ridotta all’11,5%;
◇ oltre
il 15,7% delle famiglie italiane vive in condizioni di disagio economico, con
una percentuale che supera il 25% nel Mezzogiorno;
◆ una
su tre, infine, non riesce più a sostenere spese impreviste, ricorrendo
all’indebitamento.
Per quanto tempo ancora la rete familiare di
protezione sociale saprà contenere l’onda montante del disagio giovanile?
I “DIVERSAMENTE OCCUPATI”: GLI STAGISTI
“Uno su mille ce la fa”.
Quale altra canzone candidare ad “inno
ufficiale” della Repubblica degli stagisti?!
Gli stagisti (o tirocinanti) sono studenti (o neolaureati)
interessati a fare esperienza pratica nel mondo del lavoro per essere avviati
ad una professione.
In Italia:
◆ oltre
300 mila giovani ogni anno fanno
stage nelle imprese private (fonte Unioncamere);
◇ circa
il 55% dei laureati, sia triennali che specialistici, svolge un
tirocinio appena concluso il proprio percorso di studi (fonte Almalaurea);
◆ il
13,3% delle imprese italiane, nel 2010, ha accolto stagisti.
Lo stage può rappresentare una
valida opportunità per “farsi le ossa” offerta a giovani ancora “vergini”
professionalmente: non è un rapporto di lavoro, bensì
un’esperienza formativa.
Ma è sempre così?
In realtà, molte aziende abusano dello
“specchietto per le allodole” di promettenti stage per arruolare tra
i propri dipendenti giovani senza tutele né stipendio, “disposti a
tutto” pur di ben figurare dinanzi a un possibile futuro datore di
lavoro.
Non si contano più i casi di
tirocini impostati come rapporti di lavoro a tutti gli effetti (in
cui gli stagisti vengono chiamati ad assolvere compiti e mansioni privi
di alcun contenuto formativo) o di tirocinanti privati non solo di
alcun compenso economico ma persino del rimborso spese (in Italia,
diversamente da paesi come la Francia, la legge non impone alle aziende di
pagare gli stagisti: ciascun ente o azienda ha la facoltà di decidere
autonomamente se concedere o meno un emolumento).
Il risultato?
Più della metà degli stagisti non percepisce
nulla (per molti di loro svolgere un tirocinio vuol
dire lavorare non tanto gratis quanto “a proprie spese”!), mentre solo
al 12% di loro, concluso il periodo di formazione, viene proposto
un contratto di assunzione (fonte Unioncamere).
Lo stage è divenuto una catena di montaggio
funzionale allo sfruttamento di manodopera giovanile qualificata e a bassissimo
costo.
Eppure per molti neolaureati ottenere un posto da
stagista entro i fatidici 12 mesi dalla laurea rimaneun’opportunità
imperdibile: l’ultima spiaggia cui naufragare per non affondare nel mare di
concorsi ad ostacoli e colloqui infiniti che si prospetta all’orizzonte.
VITE PRECARIE: “GENERAZIONE 1.000 EURO”
In Italia non solo è difficile trovar lavoro ma,
allorché trovato, è una pia illusione ambire al famigerato “posto
fisso”: l’80% dei giovani finisce impigliati nella rete della precarietà,
da cui non è affatto facile liberarsi.
“Flessibilità” e “precarietà” sono concetti diversi: la flessibilità è un’opportunità professionale, la precarietà una drammatica condizione esistenziale.
“Flessibilità” e “precarietà” sono concetti diversi: la flessibilità è un’opportunità professionale, la precarietà una drammatica condizione esistenziale.
Eppure oggi flessibile fa sempre più rima con
precario.
Per molti rimane un “totem” l’idea che la precarizzazione del lavoro costituisca l’unica via possibile per perseguire la crescita e lo sviluppo.
Tutte le riforme del mercato del lavoro susseguitesi
negli anni (dalla “legge Treu” del 1997 -che ha introdotto i
famigerati “co.co.co.”- alla “legge Biagi” del 2003 -che ha creato i contratti
di lavoro “a progetto” ed “a chiamata”-)hanno introdotto una
crescente deregolamentazione del lavoro, non accompagnata da
adeguate tutele per i nuovi lavoratori “atipici”.
Ed i frutti di queste politiche oramai, più che maturi, sono
cadenti!
Lavoro a tempo determinato o part-time, ma anche contratti di
somministrazione (ex interinali) o di collaborazione (a progetto, coordinata e
continuativa, mini co.co.co., occasionale), ed ancora associati in
partecipazione, prestatori d’opera con partita Iva, cessione di diritti
d’autore, vouchers, lavoratori dello sport: richiede un duro lavoro
anche solo orientarsi in questa inesplicabile “giungla”contrattuale!
Quanti sono i lavoratori precari?
Circa “4 milioni”:
◆ 1,4
milioni i lavoratori “atipici” in senso stretto (collaboratori a
progetto dei settori privati, co.co.co. della pubblica amministrazione,
associati in partecipazione, collaboratori occasionali e lavoratori che cedono
i diritti d’autore nei settori dell’informazione e dello spettacolo);
◇ 2,5
milioni i lavoratori a tempo determinato o con contratti di somministrazione (gli
ex interinali);
◆ 400
mila le false partite Iva.
Questa la fotografia più aggiornata del mondo del lavoro in
Italia (fonte Datagiovani):
◆ tra
gli under 35, i precari sono raddoppiati in otto anni, passando dal
20% del 2004 al 39% del 2011;
◇ nel
biennio 2009-2010, oltre il 76% delle assunzioni è stata fatta a tempo
determinato, mentre i contratti di lavoro standard sono stati solo il 20,8%
del totale (su quattro lavoratori neoassunti, tre sono precari!);
◆ nel
2011 i contratti a termine in Italia ammontavano al
50% del totale (nel 2001 erano solo il 9,6%!);
◇ lo
stipendio di un precario regolarmente è inferiore dal 20% al 33% rispetto
alla retribuzione netta mensile di un collega stabilizzato;
◆ la
retribuzione media di un precario si attesta sugli 836 euro netti al mese: 927
euro mensili per i maschi, 759 euro per le donne (fonte Cgia di Mestre).
Secondo gli ultimi dati di Unioncamere, nell’ultimo trimestre del 2012, su oltre 218
mila assunzioni nelle imprese dell’industria e dei servizi, “solo il 19%”
(circa un contratto su cinque) sarà a tempo indeterminato o apprendistato.
E tutto questo senza considerare che i precari di oggi saranno destinati a divenire i poveri di domani: secondo uno studio del Cerp di Torino, dopo 40 anni di contributi, beneficeranno di una pensione media di 7.303 euro lordi l’anno, pari a “608 euro” mensili!
E tutto questo senza considerare che i precari di oggi saranno destinati a divenire i poveri di domani: secondo uno studio del Cerp di Torino, dopo 40 anni di contributi, beneficeranno di una pensione media di 7.303 euro lordi l’anno, pari a “608 euro” mensili!
I cultori della “flexibility no limits” difendono la tesi per
cui il riconoscimento alle aziende di una piena libertà di assunzione e
licenziamento produrrebbe maggiore mobilità dei lavoratori, occupazione e
retribuzioni più alte.
Non tutti gli economisti, però, concordano.
Guglielmo Forges Davanzati (docente presso la Facoltà di
Economia dell’Università “Federico II” di Napoli), ad esempio, sostiene che la
“flessibilità spinta” sarebbe la principale causa della riduzione dei salari,
dei consumi e dell’occupazione.
La deregolamentazione del mercato del lavoro, a
suo avviso:
1- disincentiverebbe gli investimenti in innovazione (se
un’impresa può fare profitti comprimendo i salari ed i costi connessi
alla tutela dei diritti dei lavoratori, non avrà convenienza ad investire
nell’innovazione tecnologica);
2- ridurrebbe la propensione al consumo (l’incertezza
dei lavoratori in ordine al reddito futuro li spinge ad aumentare i risparmi);
3- ridurrebbe l’occupazione (la possibilità
di aumentare la produttività dei lavoratori con la minaccia di un licenziamento
o di un mancato rinnovo contrattuale riduce il ricorso a nuove assunzioni);
4- incentiverebbe la “finanziarizzazione”
dell’economia (la compressione della domanda di beni e servizi,
conseguente alla riduzione di salari e consumi, disincentiva gli investimenti
produttivi, dirottando quote crescenti del capitale in investimenti
speculativi).
Proprio quest’ultima è la causa prima della crisi mondiale
che stiamo attraversando, che, scoppiata negli Usa, ha subito contagiato
l’Europa.
La precarietà è in grado di ridurre i
lavoratori a fantasmi di un “limbo senza regole”: costretti
ad elemosinare un nuovo rinnovo contrattuale o alla ricerca continua di un
nuovo lavoro; discriminati rispetto ai propri colleghi stabilizzati; senza
adeguate certezze di percezione di reddito futuro; senza alcuna garanzia di
formazione professionale continua; in totale soggezione al datore di lavoro
(disponendo quest’ultimo di un potere contrattuale incomparabile); privati del
diritto a progettare un futuro, per sé e la propria famiglia (Sposarsi? Fare un
figlio? Acquistare un’auto? Chiedere un mutuo?).
In questo contesto:
◆ i giovani pagano sulla propria pelle il prezzo del cd. “brain waste” (o “spreco di cervelli”), trovandosi costretti ad accettare impieghi che richiedono l’applicazione di una piccola parte delle conoscenze acquisite;
◇ le donne sono doppiamente penalizzate, trovando lavoro con maggior difficoltà, essendo pagate meno dei loro colleghi e dovendo frequentemente ritardare la maternità, se non proprio rinunciarvi (è un caso che l’Italia, con una media di 1,4 figli per donna, è tra i paesi al mondo col più basso indice di natalità?).
◆ i giovani pagano sulla propria pelle il prezzo del cd. “brain waste” (o “spreco di cervelli”), trovandosi costretti ad accettare impieghi che richiedono l’applicazione di una piccola parte delle conoscenze acquisite;
◇ le donne sono doppiamente penalizzate, trovando lavoro con maggior difficoltà, essendo pagate meno dei loro colleghi e dovendo frequentemente ritardare la maternità, se non proprio rinunciarvi (è un caso che l’Italia, con una media di 1,4 figli per donna, è tra i paesi al mondo col più basso indice di natalità?).
Fino agli anni ‘90, la speranza era un sentimento
così diffuso da far convinti i padri che il futuro “avrebbe
sorriso” ai propri figli.
C’è da sorprendersi se,
invece, oggi ha assunto sembianze sempre più “minacciose”?
L’ULTIMA SPIAGGIA: LA FUGA DEI “CERVELLI”
C’è ancora una possibilità di futuro per i
giovani in questo Paese?
Il rischio è che prevalga la rassegnazione: se
fra i giovani meno istruiti e più disagiati ne è segno l’emergere del
“Neetismo”, tra i più preparati suscita allarme la cd. “fuga dei
cervelli” (o “brain drain”), non tanto una fuga dalle
proprie responsabilità, quanto una vera e propria fuga dal proprio Paese!
Se alla “fuga delle imprese” abbiamo già fatto
l’abitudine (la delocalizzazione industriale è un
processo in costante aumento: “Fiat docet”), con la “fuga dei cervelli”
stiamo appena iniziando a fare i conti.
E cervelli non sono più solo i ricercatori scientifici
(attratti dalle maggiori risorse e dai minori vincoli alla ricerca all’estero)
ma anche giovani laureati di qualsiasi settore.
“Non vedo l’ora di lasciare l’Italia!”:
questa una delle espressioni d’insofferenza più ricorrenti tra i giovani
studenti.
Come stupirsi se in Italia il flusso migratorio verso
la Germania è aumentato del 6,3%, tra il 2009 e il 2011 (fonteIl Sole 24 ore)?
In Germania sono 8 milioni gli under 30 con un’occupazione
(generalmente ben retribuita), in Italia appena 3 (fonteCdS).
Un buon motivo per tentare la fortuna oltralpe, no?
I dati parlano da soli:
◆ ogni
anno i giovani under 40 in fuga dall’Italia sono circa “100 mila” ed hanno
superato quota “2 milioni” nel 2010 (fonte Italents);
◇ tra
il 2009 e il 2010 , su 18 mila dottori di ricerca presi in esame, quasi 1.300
(il 7%) sono andati all’estero (fonteIstat);
◆ dal
2001 al 2010, l’incidenza dei cittadini laureati sul totale degli
espatri è raddoppiata, passando dall’8,3% al 15,9% (fonte Istat).
Ma quanto ci costa questa fuga?
Secondo la Fondazione Lilly, negli ultimi vent’anni, ogni
ricercatore che è andato a lavorare fuori dai confini nazionali ci è costato
una perdita di “148 milioni” di euro (essendo stati “155” i brevetti
prodotti da parte dei venti migliori ricercatori italiani all’estero e “301” i
brevetti ai quali ricercatori italiani hanno partecipato in modo
significativo).
Complessivamente quasi “4 miliardi” di
euro, senza considerare la vanificazione dell’investimento in
formazione dei giovani talenti regalati all’estero e la perdita di valore per
il nostro tessuto industriale.
La mobilità internazionale del lavoro non è un
fenomeno da stigmatizzare.
La cultura scientifica di un paese, anzi, aumenta se il
flusso di scienziati in uscita e in entrata è continuo e robusto.
I flussi migratori in uscita di italiani con
elevato livello d’istruzione, a dir il vero, sono
inferiori rispetto a quelli tedeschi o inglesi: Germania e Regno Unito
presentano, in termini assoluti, il maggior numero di giovani espatriati fra
tutti i 27 Paesi dell’Unione, rispettivamente 900.000 e 400.000, contro i soli
300.000 italiani (dato 2005, fonte “Organization
for Economic Cooperation andDevelopment”).
La sostanziale differenza è che,
mentre questi paesi vantano anche una straordinaria “capacità
attrattiva” di cervelli stranieri, l’Italia si pone al 24simo posto al
mondo per competitività nell’attrarre talenti, preceduta persino dalla Grecia
(fonte Centro Studi Confindustria).
Il problema italiano,
allora, è un saldo netto “emigrati-immigrati qualificati” pesantemente
negativo:
◆ su
ogni 100 laureati nazionali, ce ne sono solo 2,3 stranieri (contro una
media Ocse del 10,45%);
◇ le
università italiane, con una media del 3,1%, sono le ultime per
presenza di studenti stranieri (contro una media Ocse del 10%, che
sale all’11,2% in Francia, all’11,4% in Germania fino al 17,9% in Gran
Bretagna);
◆ i
laureati italiani che lavorano nei 30 Paesi Ocse sono 395.229, mentre gli
stranieri qualificati che hanno scelto di venire a lavorare in Italia sono solo
57.515 (solo 7 “cervelli” Ocse su 1.000 hanno scelto l’Italia come
destinazione).
Un paese che cede facilmente all’estero i suoi
migliori talenti senza attrarre giovani stranieri virtuosi subisce una perdita
netta di “capitale umano”.
Continuando così le cose, il pericolo è che l’Italia
si trasformi in un paradiso per turisti e pensionati!
Per questo una priorità assoluta deve essere:
◆ da
un lato, frenare il “brain drain” (l’“export” di cervelli);
◇ dall’altro, incentivare
il “brain gain” (l’“import” di intelligenze straniere), il
“brain exchange” (lo scambio di cervelli tra paesi) e
il “brain circulation” (la circolazione dei cervelli, il loro
spostamento all’estero per approfondire gli studi, lavorare e fare ritorno in
patria, dove mettere a frutto le competenze così acquisite).
Una sfida che si può vincere solo
in un modo: rendendo il nostro un Paese migliore.
Ovviamente “tra il dire e il fare…”.
Pier Luigi Celli,
direttore generale della Luiss, in una discussa lettera pubblica indirizzata al figlio, lo ha
esortato ad abbandonare l’Italia:
“Questo Paese -scrive
Celli- non è più un posto in cui sia possibile stare con orgoglio.
Ti conosco abbastanza per sapere quanto sia
forte il tuo senso di giustizia, la voglia di arrivare ai risultati(…), l’idea
che lo studio duro sia la sola strada per renderti credibile e affidabile nel
lavoro che incontrerai.
Guardati attorno(…). Questo è un Paese in cui,
se ti va bene, comincerai guadagnando un decimo di un portaborse qualunque; un
centesimo di una velina o di un tronista; forse poco più di un millesimo di un
grande manager che ha all’attivo disavventure e fallimenti che non pagherà mai.
Per questo(…) il mio consiglio è che tu, finiti
i tuoi studi, prenda la strada dell’estero.
Scegli di andare dove ha ancora un valore la
lealtà, il rispetto, il riconoscimento del merito e dei risultati.
Dammi retta, questo è un Paese che non ti
merita. Avremmo voluto che fosse diverso e abbiamo fallito. Anche noi”.
Non conosciamo la strada che ha preso suo
figlio -francamente non ci preoccupa-, ma sappiamo che
molti italiani, pur senza essere “figli di qualcuno”, hanno seguito il suo
consiglio.
L’“EQUAZIONE PERFETTA” PER USCIRE DALLA CRISI
Ripartiamo dalla Costituzione, che chiunque
governi dovrebbe leggere e rileggere come un “mantra” prima di assumere
qualsiasi decisione:
Art. 1: “L’Italia è una Repubblica
democratica, fondata sul lavoro”;
Art. 4: “La Repubblica riconosce a
tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano
effettivo questo diritto”;
Art. 35: “La Repubblica tutela il
lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”;
Art. 36: “Il lavoratore ha diritto ad
una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro ed in
ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e
dignitosa”;
Art. 37: “La donna lavoratrice ha gli
stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al
lavoratore”.
+ SCUOLA
Sempre più spesso si sono spacciate per riforme strutturali
mere riforme di bilancio, utilizzando impropriamente il verbo “riformare” come
sinonimo di “tagliare”.
Ciò è particolarmente vero nel settore dell’Istruzione,
considerato alla stregua di uno dei tanti capitoli di spesa dell’imponente
bilancio statale.
Non sorprende scoprire che, secondo uno studio dell’Ocse (“Educationat a glance 2011”), in Italia:
◆ nel
2008, solo il 4,8% del Pil è stato speso per l’Istruzione, rispetto
alla media Ocse del 6,1% (posizionandosi al 29simo posto su 34 paesi);
◇ tra
il 2000 e il 2008, la spesa sostenuta per studente è aumentata solo del 6%,
contro una media Ocse del 34% (il secondo incremento più basso tra i 30 paesi
considerati);
◆ la
spesa per studente non aumenta notevolmente in base al livello d’istruzione,
passando da 8.200 dollari al livello pre-primario a 9.600 al livello terziario,
rispetto ad un aumento medio nell’area Ocse da 6.200 dollari al livello
pre-primario a 13.700 al livello terziario;
◇ tra
il 2000 e il 2009, gli stipendi degli insegnanti sono leggermente diminuiti
(-1%), mentre nell’are Ocse sono aumentati in media del 7%, in termini reali.
Investire sulla Scuola vuol dire investire sul
futuro dei giovani, dunque del Paese di cui questi sono la
sola speranza.
Occorre rimettere la Scuola, l’Università
e la Ricerca “al centro” dell’agenda politica di qualsivoglia governo,
prescindendo dai vincolo di bilancio: è “miope” immaginare di
ridurre il debito pubblico di un Paese aumentando il suo “debito culturale”!
Come ridare centralità alla Scuola?
Ecco alcuni suggerimenti:
◆ superamento
della “parità scolastica” (causa della distrazione di risorse
pubbliche in favore di istituti scolastici paritari) per ridare
centralità alla scuola pubblica.
La leggen.62 del 2000 ha equiparato le scuole private a
quelle pubbliche.
La realtà, però, ci rivela che:
- il 90% delle famiglie italiane continua a preferire le
scuole pubbliche per i propri figli (solo uno studente italiano su dieci
frequenta una scuola privata, nonostante queste già rappresentino circa un
quinto delle scuole italiane);
- l’Italia è all’ultimo posto tra i paesi Ocse per la qualità
dell’insegnamento nelle sue scuole private, in molte materie;
- la riforma sulla parità scolastica raggira sostanzialmente
il dettato dell’art. 33 della Costituzione, secondo cui “Enti e privati hanno
il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo
Stato”.
◇ riduzione
a 7 anni della Scuola dell’obbligo, accorpando la Scuola
elementare e la Scuola media in un comune ciclo formativo;
◆ riqualificazione
degli Istituti professionali, per troppo tempo bistrattati e considerati
meno dignitosi rispetto ai più gettonati licei;
◇ aggiornamento
dei piani di studio, dando priorità allo studio delle lingue straniere e
dell’informatica (come uscire da una scuola senza saper parlare ottimamente
l’inglese o privi della competenza per un uso professionale del pc?) ed
introducendo lo studio del diritto e dell’economia in ogni percorso
d’istruzione (come ambire ad entrare nel mondo del lavoro ignorando i propri
diritti di cittadinanza e non avendo nozione di cosa sia un contratto?);
◆ trasformazione
delle scuole in “centri di aggregazione giovanile”, aperti tutto il giorno
tutti i giorni per offrire ai ragazzi ulteriori servizi e spazi usufruibili al
di fuori dell’orario delle lezioni (ad esempio, tutor per gli studi,
biblioteche, aule informatiche, palestre, cineforum);
◇ messa
in sicurezza di tutti gli edifici scolastici. Secondo un rapporto di Cittadinanzattiva,
solo un quarto degli edifici scolastici è in regola con tutte le certificazioni
di sicurezza, si contano lesioni strutturali in una scuola su dieci, distacchi
di intonaco in una su cinque, muffe ed infiltrazioni in una su quattro. E’
davvero il Ponte di Messina, allora, la prima infrastruttura di cui il Paese
più necessita? Non aiuterebbe anche il rilancio dell’economia un piano per
l’edilizia scolastica che preveda almeno un cantiere aperto in ogni grande
città?;
◆ riqualificazione
delle scuole disagiate di periferia o dei quartieri più problematici
delle grandi città (si pensi allo Zen a Palermo o a Scampia a Napoli), da
considerare il primo “presidio di legalità”;
◇ maggiore
attenzione al merito degli studenti. Perché non premiare con borse di
studio, la gratuità dei libri di testo o viaggi premio gli studenti più
meritevoli di ogni istituto? Perché non stimolare negli studenti la convinzione
che impegnarsi di più, nello studio come nella vita, “conviene”?
◆ maggiore
attenzione al merito dei docenti. Perché non prevedere retribuzioni
supplementari (premi, incentivi e gratifiche) in base ai risultati conseguiti
dagli insegnanti, istituendo “centri di valutazione” in ogni istituto
scolastico, di cui far partecipi anche le famiglie e gli studenti?
◇ rivalutazione
del ruolo sociale dell’insegnamento. Occorre riaffermare il principio per
cui compito degli insegnanti non è solo “istruire” ma anche “educare” i
giovani. Ma come pretendere che i docenti esprimano il massimo impegno ed
entusiasmo nel loro lavoro quando vengono sempre “meno considerati” dagli
alunni -spesso col complice sostegno dei loro familiari- e sempre più
“bistrattati” dallo Stato -non disposto a retribuirli dignitosamente, ma pronto
ad accusarli di non lavorare abbastanza-?
+ UNIVERSITÀ
La Riforma Berlinguer dell’Università, che ha
introdotto il cd. “3+2” (Decretoministeriale n.509 del 1999), ha mostrato negli
anni tutti i suoi limiti, fallendo negli obiettivi sia di
migliorare la qualità dell’offerta formativa, sia di ridurre i tempi per il
conseguimento della laurea.
La Riforma Gelmini (legge n.240
del 2010), invece, non ha prodotto altro che ridurre le risorse
destinate al mondo accademico e precarizzare i ricercatori universitari,
d’ora in avanti assunti “solo” con contratto a tempo determinato.
Il risultato?
Moltiplicazione di corsi di laurea per
lo più inutili; caos didattico nell’applicazione del
sistema dei “cfu” (crediti formativi universitari); aumento
del numero dei fuoricorso (molti non riescono a laurearsi prima dei 28
anni);diminuzione del numero dei laureati (solo il 60% dei laureati
di primo livello finisce la specialistica); introduzione dialquanto discutibili
test d’ingresso; inaccessibilità dei dottorati; strutture
sempre più inadeguate, con studenti non di rado costretti a prendere
appunti a terra in aule sovraffollate; posti letto ridotti e
caro degli affitti per gli studenti (favorito dalla carenza di alloggi
universitari); fondi insufficienti per il pagamento delle borse di
studio; tasse universitarie sempre più care...
È possibile credere che la colpa di tutto questo
sia dello “scarso impegno” o dell’incapacità di adattamento dei giovani?
L’impressione è che, come al solito, “si guardi al
dito per non mirare la luna”:
◆ la
spesa pubblica in educazione terziaria è pari a meno dell’1% del Pil, a
fronte di una media Ocse dell’1,5%;
◇ la
spesa per studente risulta in media di 5.628 euro, contro una media Ocse di
8.455 euro;
◆ nessuna
università italiana risulta tra le 100 migliori al mondo;
◇ negli
ultimi 30 anni la percentuale dei laureati è cresciuta meno che altrove (tra
i 15 ed i 64 anni, solo il 15% delle persone è laureato o ha un
titolo di studio equivalente, a fronte di una media Ocse del 31% ed una media
europea del 28%)?
Come ridare slancio all’Università?
Occorre una riforma organica basata su alcuni principi base:
◆ superamento
del sistema “3+2” e della follia dei “crediti universitari”, istituendo
corsi di laurea quinquennali;
◇ abolizione
del “numero chiuso”, sostituendolo con una valutazione del merito in itinere.
I test d’ingresso sono spesso “inadeguati” per una selezione degli studenti più
meritevoli, impedendo a ragazzi ancora immaturi di confrontarsi col mondo
dell’Università. Sarebbe preferibile aprire democraticamente le porte “a tutti”
ma selezionare meritocraticamente i migliori. Come? Inserendo al primo anno
accademico alcune materie fondamentali sulle quali testarne l’attitudine e
consentendo il proseguimento degli studi “solo” a coloro che avranno sostenuto
tutte le materie previste o che avranno maturato una media voti elevata;
◆ introduzione
del “principio duale” (la contemporaneità della formazione di
carattere teorico, che si svolge in aula, e professionale, che si acquisisce in
azienda), superando il “principio sequenziale” fin qui adottato (secondo il
quale la formazione professionale segue quella di carattere teorico). Si
tratterebbe di favorire la formazione professionale in itinere, ad esempio
rendendo obbligatori i tirocini curriculari e coinvolgendo nell’insegnamento
professionisti che operano sul campo;
◇ miglioramento
dell’orientamento universitario, indirizzando i ragazzi nella scelta dei
percorsi di studi che offrono più prospettive di lavoro (ad esempio, offrendo
borse di studio premianti a coloro che scelgono le facoltà scientifiche);
◆ potenziamento
del diritto allo studio, assicurando l’effettiva erogazione di tutte le
borse di studio assegnate, approntando piani di investimenti in edilizia
studentesca e garantendo agli studenti tariffe agevolate per l’utilizzo dei
mezzi di trasporto pubblico.
+ RICERCA
Il nostro Paese si colloca al 15simo posto in
Europa per investimenti in ricerca e sviluppo, preceduto persino
da Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia e Slovenia.
Secondo l’Ocse, nel 2011 l’Italia ha investito solo l’1,09%
del proprio Pil in tale settore: numeri da “terzo mondo”, considerando che,
tra i paesi più industrializzati, solo il Sud Africa fa peggio (con lo 0,92%).
Investono nettamente più del 2% del proprio Pil, invece, la
Francia (2,11%), la Danimarca (2,43%), l’Austria (2,45%), la Germania (2,53%),
gli Usa (2,62%), l’Islanda (2,78%), la Svizzera (2,9%) la Corea del Sud
(3,23%), il Giappone (3,39%), la Finlandia (3,45%), la Svezia (3,73%) e Israele
(4,53%).
Che futuro può avere un Paese che ha
abbandonato l’agricoltura (surclassato dalle merci a basso
costo provenienti dal Mediterraneo), arretra sempre più nel campo
manifatturiero (non potendo seriamente competere con la solida
manifattura tedesca o l’emergente industria cinese) e rinuncia persino ad
investire sul proprio capitale umano?
Occorre ridare “centralità” alla ricerca ed
allo sviluppo tecnologico.
Ecco da dove e come ripartire:
◆ maggiori
investimenti nella ricerca, ponendosi l’obiettivo minimo di raggiungere il
2% del Pil in investimenti nel settore nell’arco temporale di 3-5 anni;
◇ maggiori
incentivi alle imprese per l’innovazione tecnologica, ad esempio detassando
gli investimenti privati in ricerca ed abolendo l’Irap;
◆ realizzazione
della “banda ultra larga” (o fibra ottica) in tutto il Paese;
◇ costituzionalizzazione
del diritto al “libero accesso a Internet”, inserendo un apposito richiamo
all’interno dell’articolo 21 sulla libertà di stampa e di parola.
Troppo poco ci si occupa
dello “spread digitale” (o “digital divide”) che distanzia l’Italia dal resto
del mondo sviluppato.
Secondo la Commissione
europea, il nostro Paese in Europa figura:
◆ terzultimo
come percentuale di popolazione che si connette alla rete almeno una volta a
settimana (preceduto persino da paesi come Cipro, Croazia e Polonia,
avanti solo a Bulgaria e Portogallo);
◇ penultimo
per la copertura di internet veloce (o Adsl) sul territorio nazionale (solo
l’Irlanda fa peggio di noi);
◆ ultimo
per la copertura di internet superveloce (o fibre ottiche), coprendo solo
il 10% del territorio (la Francia copre il 20% ed ambisce al 37% entro il 2015
ed al 100% nel 2025, il Portogallo il 60%, la Svizzera il 90%, la Corea ed il
Giappone il 100%).
Oltre il 41% degli italiani non è “mai” entrato
in rete: il doppio o il triplo rispetto
alla Francia (24%), la Germania(17%) o il Regno
Unito (10%).
Quando si parla di “alta velocità” che manca,
allora, si dovrebbe in primis avere in mente l’arretratezza della
nostra rete internet.
Il Tav Torino-Lione (linea
ferroviaria destinata a “far volare” in Europa le merci provenienti dalla Cina
dopo una lenta traversata transoceanica) ci costerà tra i 15 e e i 20
miliardi di euro: le stesse risorse che basterebbero a collegare il 100%
degli italiani ad Internet superveloce.
La differenza?
Realizzare la banda ultralarga in Italia
comporterebbe un aumento del Pil, ogni anno e fino al
2030, dall’1,5%(secondo le stime più pessimiste della commissaria
europea per l’Agenda digitale, Neelie Kroes) al 3% (secondo
l’Osservatorio “I costi del non fare”, di Andrea Gilardoni).
Il futuro di questo Paese, allora, dipenderà dalla
lungimiranza della politica nello scegliere la strada giusta.
E l’impressione è che la banda ultralarga rappresenti
l’autostrada tecnologica di cui l’Italia ha più bisogno per ricominciare a
correre.
+ OPPORTUNITÀ
La ricerca di un lavoro per i giovani si è
trasformata in un “percorso ad ostacoli”.
Come rimuovere le principali barriere che
intralciano il raggiungimento di questo traguardo?
◆ Più
liberalizzazioni. Gli ordini professionali spesso rappresentano il primo
ostacolo all’ingresso di giovani leve nel mondo delle professioni: non stupisce
che, tra gli oltre 2 milioni di iscritti agli ordini, appena il 9,4% abbia meno
di 30 anni (un notaio su due ha più di 50 anni, quasi tre medici su quattro
sono over 45!).
◇ Meno
burocrazia. Occorre “sburocratizzare” le procedure per avviare un’impresa o
un’attività commerciale, creando una rete di sostegno alle nuove imprese.
◆ Più
sgravi fiscali. Serve favorire l’assunzione dei giovani nel mercato del
lavoro, abbattendo quel cuneo fiscale che rende alle imprese diseconomico
assumere e ai lavoratori troppo leggera la busta paga.
◇ Crediti
agevolati. Necessita sostenere i giovani che vogliano intraprendere
un’attività d’ingegno o d’impresa, in quanto i più penalizzati dal sistema
bancario: secondo le stime della Banca Mondiale, il tasso di esclusione dal credito in
Italia è del 25%, uno dei più elevati dell’Unione Europea.
- PRECARIETÀ
La precarietà è divenuta una drammatica
“condizione esistenziale” per molti giovani.
Come combatterla efficacemente?
Ecco alcuni prioritari interventi:
◆ Riforma
degli stage. Occorre incentivare i tirocini “curriculari” (introducendo
quantomeno il diritto del tirocinante ad un rimborso spese) e vietare
gli stage “extracurriculari” (chi termina gli studi e svolge
un’attività presso un’azienda deve essere regolarmente assunto e retribuito, ad
esempio con contratto di apprendistato).
◇ Riforma
del lavoro. Serve ridurre le molteplici forme contrattuali esistenti (prevedendone
solo quattro per i lavoratori dipendenti: contratto di apprendistato,
part-time, a termine e indeterminato) e rendere più conveniente
assumere a tempo indeterminato.
◆ Riforma
del welfare. Necessita unificare il sistema dei diritti e delle tutele dei i
lavoratori (superando l’attuale divisione tra un mercato del lavoro di
serie A “super tutelato” ed uno di serie B) ed introdurre un’indennità
di disoccupazione (o reddito minimo garantito).
◇ Piano
casa per i giovani. Si rende opportuno concedere ai giovani “mutui
agevolati” per l’acquisto della prima casa, ed esentare dall’Imu le prime
case per i redditi più bassi e le seconde qualora destinate in dote ai figli.
- GERONTOCRAZIA
Quel giorno in cui anche l’Italia potrà vantare
un ministro del Lavoro “under 40”, forse la politica eviterà
certe “gaffe” ed avrà una maggiore consapevolezza delle reali
problematiche delle ultime generazioni.
Per obbligarla ad aprirsi di più ai giovani in un paese
sempre più “a misura di pensionato”, perché non riconoscere in
Costituzione il diritto di voto già a 17 anni?
In conclusione, non esistono riforme “a costo zero”,
salvo dovute eccezioni (come in tema di liberalizzazioni, dove a mancare non
sono tanto le risorse quanto il “coraggio politico” di contrastare forti
lobby).
Ogni azione qui proposta ha un costo,
che sarebbe più facilmente sostenibile se l’Italia disponesse di una maggiore
“salute finanziaria”.
L’arte della politica, però, implica sempre delle
scelte.
Bastano alcuni dati: il bilancio delle Regioni ammonta a “208
miliardi” (dato 2010), il gettito delle entrate tributarie statali a “411
miliardi” (dato 2011), il bilancio generale dello Stato a “780 miliardi” (dato
2012).
Se si è convinti che la “questione giovanile”
sia un’emergenza nazionale, le risorse vanno “ad ogni
costo”trovate!
È compito della politica stabilire
“quanti” sprechi tagliare, “come” razionalizzare la spesa pubblica improduttiva
e “dove” prioritariamente investire.
E, nell’attesa che un Parlamento di ultracinquantenni
si accorga che il Paese è composto anche da giovani, è consigliabile a
quest’ultimi di fare affidamento solo su se stessi…
Gaspare Serra
Fonte: Panta Rei
Il professore: “Lei promette bene,
voglio darle un consiglio: ha una qualche ambizione?(…). Se ne vada
dall’Italia! Lasci l’Italia finché è in tempo! Qualsiasi cosa decida, vada a
studiare a Londra, a Parigi, vada in America, se ha le possibilità, ma lasci
questo Paese. L’Italia è un Paese da distruggere: un posto bello e inutile,
destinato a morire(...). Qui rimane tutto immobile, uguale, in mano ai
dinosauri. Dia retta, vada via…”
Lo studente: “E lei, allora, perché
rimane?”
Il professore: “Come perché? Mio caro,
io sono uno dei dinosauri da distruggere!”
(dialogo estratto dal film “La Meglio
Gioventù”)