Mentre ai licei si diplomano i figli dei professinisti e si
riduce il numero di iscritti all’universià, l’incertezza del futuro lavorativo
e la fine del patto tra Stato, mercato e ceto medio segnano un cambiamento
profondo cominciato molti anni fa e precipitato con la crisi. L’enorme
disoccupazione giovanile è solo un’altra spia del fallimento dell’università e
del welfare, così come pensati finora da destra e «sinistra». Tuttavia, per
questi motivi studenti e precari, cioè coloro che non hanno più nulla da
perdere, con la loro rabbia e i loro saperi, potrebbero giocare un ruolo non
previsto nel cambiamento sociale qui e ora.
2 dicembre 2012
La classe operaia non va al liceo. Ma anche i figli del ceto
medio ci pensano due volte (esattamente nel 50% dei casi) ad avventurarsi tra i
corsi dell’università. Dall’indagine Almadiploma, associazione nata da una
costola di Almalaurea, risulta che circa 50 diplomati su 100 intendono continuare
gli studi, 10 intendono coniugare studio e lavoro, 22 intendono solo lavorare e
16 sono incerti sul loro futuro. Il 42% di loro tornerebbe indietro per
scegliere un altro indirizzo di studi, o un’altra scuola, il 10% ripeterebbe il
corso ma in un’altra scuola, il 7% sceglierebbe un diverso indirizzo/corso, il
24% cambierebbe sia scuola che indirizzo.
Tra i 40 mila ragazzi ai quali è stato somministrato il
questionario dopo il conseguimento del diploma nel luglio 2012, ci sono
conferme: ai licei si diplomano i figli del ceto medio delle professioni, il
37% ha almeno un genitore laureato che ha concluso la scuola medie con un
ottimo giudizio, mentre il 24% ha un genitore che possiede un diploma e il 15%
è nato in una famiglia in cui i genitori possiedono un titolo di istruzione di
grado inferiore. Nulla di nuovo si direbbe, visto che sono confermate le
differenze di classe sancite – strutturalmente – sin dalla riforma Gentile che
si sono trascinate lungo la storia repubblicana.
Consultando i dati sulle pre-iscrizioni alle scuole fornite
dal Miur quest’anno, si nota un leggero incremento nelle iscrizioni agli
istituti tecnici e professionali e una leggera diminuzione per i licei: il
31,50% degli studenti ha scelto quest’anno gli istituti tecnici (l’anno scorso
era il 30,39%), il 20,60% gli istituti professionali (contro il 19,73%
precedente), mentre ai licei si iscrivono il 47,90% dei ragazzi (contro il
49,88%). Dati che confermano una tendenza storica che consiglierebbe di
ridimensionare l’allarme con il quale è stato accolto ieri il rapporto.
Almadiploma conferma però una realtà strutturale dell’economia della conoscenza
in Italia: sono almeno dieci anni che è esplosa la «bolla formativa».
La bolla formativa
Secondo Almalaurea, è dal 2003 che è in atto una diminuzione
degli iscritti ai corsi universitari, all’incirca 43 mila all’anno. Questa
diminuzione ha riguardato gli studenti provenienti dai tecnici e dai
professionali, e non quelli dal liceo. Nel frattempo, anche in virtù della
modularizzazione dell’istruzione con la riforma Berlinguer-Zecchino, è
cresciuta la quota dei diciannovenni che hanno conseguito il diploma (dal 40%
del 1984 al 73% del 2009), ma dal 2003 al 2009 il rapporto tra immatricolati
all’università e gli studenti appena diplomati si è ridotto in misura
consistente, quasi il 10%.
Ciò è dovuto ad almeno due fattori: l’incertezza del futuro
lavorativo, e alla legittima aspirazione al conseguimento di un reddito da
lavoro, sin dalla giovane età, nonostante la precarietà della maggioranza dei
contratti. E poi c’è il fenomeno che un recente rapporto di Bankitalia ha
definito «mismatch» tra le competenze acquisite durante il corso di studio e la
mansione svolta sul luogo di lavoro. Circa il 40% dei giovani italiani tra i 24
e i 35 anni in possesso di una laurea almeno triennale svolge dal 2009 un
lavoro a bassa o nessuna qualifica.
Pur non avendo intaccato in maniera significativa la
percentuale degli iscritti ai licei, frequentati dai figli della classe media e
del lavoro autonomo delle professioni, l’esplosione della bolla formativa ha
investito principalmente i diplomati, e i laureati, nelle materie umanistiche,
cioè i ragazzi che intendono svolgere una professione in cui si identificano;
vogliono approfondire un’attività culturale e auspicano in futuro un lavoro ben
retribuito.
Tre elementi confermati anche dal rapporto Almadiploma che
registra il desiderio dei ragazzi di ottenere un contratto a tempo
indeterminato, l’unica condizione per conciliare le competenze acquisite con le
mansioni svolte sul lavoro. Le incertezze, e i ripensamenti, raccontati dai
diplomati del 2012 confermano che, al tempo dell’esplosione della bolla, esiste
una consapevolezza diffusa: solo una tutela sul lavoro, e del lavoro, può
garantire una ripresa delle iscrizioni all’università.
Fine del patto tra Stato, mercato e ceto medio
L’incertezza sul futuro cresciuta tra i diplomati del 2012
si spiegano con i dati sulla condizione occupazionale a uno, tre e cinque anni
dalla laurea. Nel XII rapporto Almalaurea del 2012, esistono informazioni che
permettono di spiegare questa realtà, alla luce di una tendenza pluriennale.
Scrive Andrea Cammelli: «Tra il 2004 e il 2008, quindi negli anni precedenti
alla crisi, tranne che in una breve fase di crescita moderata, l’Italia ha
fatto segnare una riduzione della quota di occupati nelle professioni ad alta
specializzazione, in controtendenza rispetto al complesso dei paesi dell’Unione
europea. Un’asimmetria di comportamento che si è accentuata nel corso della
crisi: mentre al contrarsi dell’occupazione, negli altri paesi è cresciuta la
quota di occupati ad alta qualificazione, nel nostro paese è avvenuto il
contrario. dell’occupazione, negli altri paesi è cresciuta la quota di occupati
ad alta qualificazione, nel nostro paese è avvenuto il contrario».
I dati Excelsior-Unioncamere sul fabbisogno di forza lavoro
delle imprese italiane chiariscono questo andamento dell’occupazione
intellettuale. Negli ultimi anni è senz’altro cresciuto il peso dei laureati (e
dei diplomati) sull’occupazione complessiva. E non poteva essere altrimenti in
un paese dove la media dell’acculturazione è bassissima e risente di ritardi
storici rispetto ai paesi Ocse. Ma la consistenza della domanda di laureati,
pari a 74 mila nel 2011 (il 12,5% di tutte le assunzioni previste) conferma il
fatto che il «mercato» (per non parlare della pubblica amministrazione, dove le
assunzioni sono bloccate almeno dal 1999 e lo rimarranno per i prossimi 25
anni) non ha bisogno di forza-lavoro qualificata.
Un confronto con gli Stati uniti può essere utile per
comprendere la situazione: le previsioni per il decennio 2008-2018 stimano il
fabbisogno di laureati pari al 31% del complesso delle nuove assunzioni. In
Italia, dunque, non ci sono laureati sufficienti e quelli che si laureano non servono
al mercato, né al pubblico. Si tratta di un vero esodo che traduce, dal punto
di vista dell’istruzione, la condizione generale di esclusione in cui vive
almeno un terzo della forza-lavoro in Italia: il Quinto Stato. Oggi è ormai
esploso il patto di cittadinanza istituito nel Dopoguerra tra il ceto medio, lo
Stato e il mercato. Quella che definirò in seguito assalto all’istruzione
pubblica è il risultato di questa crisi terminale, oltre che l’appendice di un
conflitto sociale agito dall’alto che all’inizio degli anni Ottanta aveva già
sconfitto le parti più avanzate della classe operaia.
L’esplosione della bolla formativa è l’ultimo esempio di una
lunga vicenda politica. Ed è il più doloroso, perché colpisce la vita e il
futuro dei figli della «borghesia», come di quelli delle «classi subalterne».
L’Italia ha sempre avuto un problema storico nel definirsi, in senso moderno,
una “nazione”. Oggi apprende un nuovo aspetto della sua difficile vicenda
collettiva: la difficoltà di definire la propria riproduzione materiale e
intellettuale secondo i canoni delle società contemporanee.
La coda lunga dell’inoccupazione
L’incertezza del futuro che oggi alligna tra i diplomati, ma
anche tra chi è appena entrato nella scuola superiore, come hanno dimostrato i
ragazzi che hanno manifestato nell’autunno 2012 contro il governo Monti, è dato
dalla consapevolezza del fallimento di un sistema, noto in tutte le famiglie
italiane, del ceto medio e non solo.
A questa crisi la classe dirigente, e lo Stato, hanno
reagito in maniera inquietante. Come mai, davanti alla necessità di aumentare
gli investimenti per la formazione e la qualificazione del lavoro cognitivo, è
in atto in Italia un progressivo definanziamento dell’istruzione pubblica? Un
taglio iniziato ben prima dei tagli di Gemini e Tremonti che hanno dato a
scuola e università un colpo mortale (10 miliardi di euro in 5 anni, dal 2008
al 2013). Statistiche affidabili lo fanno risalire alla prima metà degli anni
duemila.
Il definanziamento del sistema formativo, e della ricerca, è
l’altra faccia di un processo che ha raggiunto l’apice del suo fallimento con
la Gelmini. La riforma dell’università (e della scuola) è stata dettata dalla
necessità di aumentare la forza lavoro qualificata (con laurea o diploma).
L’aumento c’è stato, ma è stato irrilevante rispetto al fabbisogno. Un
fabbisogno che è solo teorico, perché né il pubblico né il privato sono
ricettivi, pronti ad beneficiarne. Non da oggi, ma dalla metà degli anni
Settanta, quando emerse con forza la realtà della disoccupazione giovanile, e
del rischio di inoccupazione dei diplomati e dei laureati.
Nel 1977 i movimenti impetuosi che attraversarono le scuole
e le università ne erano la spia. Nel 1989, vista l’impossibilità di trovare
una soluzione ad un problema che era nel frattempo diventato strutturale, è
iniziato il processo di riforma dell’istruzione pubblica in direzione di una
sua maggiore professionalizzazione.
Dopo 23 anni il fallimento definitivo. Complice la crisi, la
disoccupazione giovanile aumenta oltre il 36%, diventa evidente la non
coincidenza tra le competenze impartite nei corsi universitari e la loro
spendibilità sul “mercato” del lavoro. Cresce il numero degli studenti che
lavorano durante gli studi, precariamente (il 66% sono fuori corso, oltre un
terzo è precario). La decisione è presa: si tagliano 10 miliardi di euro in
cinque anni all’istruzione pubblica (8,5 alla scuola e 1,4 all’università) per
ridimensionare un’offerta già insufficiente rispetto ad una domanda inesistente
di forza lavoro qualificata.
Il mercato, e lo Stato, come parti costituenti della
governamentalità neoliberale che sovrintende anche sulle politiche scolastiche
e universitarie, hanno deciso di fare a meno di un esperimento fallimentare: la
costruzione, anche in Italia, di una «società della conoscenza», o meglio di
un’«economia del terziario avanzato» propriamente detta. E, così facendo,
intendono utilizzare il lavoro della conoscenza in maniera diversa.
Il modello sociale della miseria
Sul corpo, e la mente, delle lavoratrici e dei lavoratori
della conoscenza si è sperimentato per vent’anni un nuovo modello sociale: redditi
bassi, o inesistenti, lavoro a prestazione occasionale con contratti o
committenze rare o inesistenti, nessuna tutela socio-sanitaria e garanzia dei
diritti fondamentali, dealfabetizzazione e deprofessionalizzazione intese come
condizioni per affrontare il crollo dell’occupazione generale, e in particolare
intellettuale. Il laboratorio dove è stato elaborato questo modello sociale è
stato lavoro immateriale in tutte le sue accezioni. Negli anni in cui si
riformavano la scuola e l’università, si procedeva alla riforma pensionistica
che ha istituito la gestione separata e alla riforma del lavoro che ha
legalizzato il precariato di massa.
Con la riforma Berlinguer-Zecchino della scuola e
dell’università la sinistra ha voluto riformare l’istruzione con criteri
brutalmente economicisti (più laureati, più produzione, quindi maggiore
innovazione e ricchezza). Uno scopo è stato raggiunto. Oggi l’intera forza
lavoro viene governata secondo gli schemi imposti con la riforma della scuola:
modularizzazione dei tempi di vita sulla base della produttività (di esami, sul
lavoro); trasformazione della vita in uno scambio tra debiti e crediti;
accumulazione di esperienze (corsi, contratti) per raggiungere un obiettivo (la
laurea, la fine del contratto) che non ha valore perché scade.
E’ stata così impartita un’etica pubblica, e una mentalità,
basata su questa mentalità del lavoro a termine, della precarietà di massa,
dello sfruttamento del tempo di vita più che delle reali «competenze» possedute
dal laureato o dal diplomato. La valutazione del lavoro in sé tende a
scomparire, a favore della disponibilità del soggetto a prestarsi a questa
ortopedia sociale trasmessa dalle istituzioni totali di nuovo genere.
L’assalto all’istruzione pubblica ha inoltre trasformato la
mentalità del ceto medio. Inizialmente, le riforme «di sinistra» hanno provato
a conquistare il suo consenso, facendo leva sulla retorità delle «nuove
professioni», sul mondo globale al quale avrebbe preparato l’università e la
scuola riformata. Ma la crisi quarantennale è stata più forte e ha sconfitto la
resistenza del ceto medio che non ha più creduto a queste favole. E, dalla sua,
non poteva contrapporre alla strategia neoliberista delle classi dirigenti le
vecchie conquiste del welfare universale, e in particolare dell’istruzione
pubblica di massa. Ormai sprofondata nella barbarie della precarietà e nel
saccheggio continuo dei saperi e delle competenze dei docenti.
Meritocrazia: il populismo a scuola
Dalla ricerca del consenso si è passati al populismo. I tagli,
le accuse di «coporativismo» alla classe docente, e ai sindacati, la retorica
della «meritocrazia» contro l’anti-modernità dell’istruzione pubblica (e della
ricerca) hanno cercato di solleticare una parte minoritaria del ceto medio
delle professioni che credeva nei valori dell’individualismo, della
competizione, nella tradizionale politica degli interessi che privilegia «chi
lavora e produce» da «chi parla». Nel decennio berlusconiano è stata questa,
del resto, l’etica pubblica proposta. Così anche nell’istruzione pubblica.
La destra ha constatato il fallimento della riforma «di
sinistra» e li ha portati alle estreme conseguenze: i laureati, o diplomati,
sono sempre troppi rispetto alle esigenze di un mercato che si è accomodato sui
livelli bassi della produttività. Bisogna scremare questa massa, spingerla a
scegliere un lavoro a 15 anni (la riforma dell’apprendistato prima di Sacconi e
oggi della Fornero), dimostrare che il corso di studio è valido solo se è
professionalizzante. Gli altri corsi o scuole che non «producono» un’élite di
specialisti, o una forza lavoro di immediata spendibilità, vanno tagliati.
La «meritocrazia», come modello sociale, è inapplicabile,
come sarebbe facile da dimostrare testi alla mano dalla Repubblica di Platone
fino ai teorici più scafati del neoliberismo come Hayek, è la rappresentazione
di un’esigenza ancora inconfessabile in Italia: la riduzione alla miseria, e
allo sfruttamento, di una società «della conoscenza» ristretta, ma ancora
sufficientemente ampia, che ha bisogno di tutele e garanzie di diritti per
esprimere la sua necessaria complessità.
Il progetto sociale sottinteso dalla «meritocrazia» aspira
ad applicare i criteri di produttività – e quindi di «qualità» e «eccellenza» –
all’agire umano in quanto tale (in cui rientra la ricerca, ma anche la
selezione del «capitale umano»). Un progetto, per inciso, che non può essere
condiviso dalla «sinistra», solidamente «egualitaria», anche se rappresenta
un’insidia non da poco. Porta, infatti, alle estreme conseguenze le premesse le
premesse economicistiche della sua idea di società.
Una proposta che ha mostrato i suoi limiti, al punto che la
politica della conoscenza della destra – così come quella del «governo tecnico»
– continua a scontrarsi frontalmente con gli ultimi avamposti dell’istruzione
pubblica. Entrambe le parti non riescono però a rispondere alla crisi reale
scoppiata nel ceto medio che conosce il dramma della precarietà che, presto
diventerà, disoccupazione intellettuale di lungo periodo. Tanto la strada del consenso,
quanto quella del populismo, non offrono alternative ad una crisi che ha
modificato i confini tradizionali dello status professionale e la sua
possibilità di riconoscimento rispetto alla sfera sociale, ed economica,
allargata.
La strategia riformista è finita
Lo scollamento tra la retribuzione e la mansione lavorativa,
tra il processo formativo e l’inserimento e la selezione professionale sul
mercato del lavoro, hanno scarnificato il profilo sociale (il suo status) del
ceto medio delle professioni, cioè il soggetto che affida all’istruzione la
speranza dell’ascensore sociale. La strategia riformista non è riuscita ad
occultare la progressiva proletarizzazione del ceto medio, le cui antiche
aspirazioni di emancipazione e prestigio sociale sono state diluite nella
generale condizione di precarietà. La sconfitta dell’assalto all’istruzione
pubblica si può dunque spiegare alla luce di un fallimento politico. In
vent’anni, (ma la genesi è sicuramente più lunga), nessuno è riuscito a
rimediare alla distruzione del patto di cittadinanza tra ceto medio delle
professioni (regolamentate e non regolamentate), Stato e mercato.
Nessuno è riuscito a rimettere in piedi l’illusione
umanistica sulla quale si è basata l’istruzione pubblica nei paesi del Welfare.
Esiste un percorso di studi, anche a pagamento, in strutture pubbliche, e anche
private, e poi master, stage, tirocini e specializzazioni, che rappresentano
l’anticamera all’inserimento sociale e professionale. Lo Stato avrebbe dovuto
garantire, con l’istruzione e la legislazione del lavoro, il giusto compenso
per un percorso esistenziale liberamente intrapreso da una persona che si
iscrive all’università, è consapevole dei diritti e ha coscienza del proprio
status sociale.
Ceto medio: la stella polare che non c’è
Nella credenza illusoria di un ceto medio è cresciuta la
sconfitta di un’intera classe dirigente, di centro-sinistra e di centro-destra
che ha eletto questa idea artificiale a propria stella polare. Una classe
dirigente rappresentata da baroni universitari (Berlinguer o Zecchino e, da
ultimo, Profumo), da grand commis della borghesia imprenditoriale (Moratti), o
da oscuri rappresentanti del populismo priapesco del Cesare di turno (Gelmini).
Vale a dire, dalle stesse figure sociali che hanno prodotto – o sono state
prodotte – dall’ideologia del patto repubblicano del ceto medio nelle sue varie
accezioni: a sinistra si volevano creare le “nuove professioni” all’altezza del
mercato post-fordista della conoscenza, mezze figure usa e getta dalle
competenze incerte che sarebbero state usate dalla pubblica amministrazione,
come dall’impresa, il tempo necessario per tappare i buchi del turnover oppure
per soddisfare il profitto dei privati. A destra si è creduto di potersi
identificare nel fantasma del ceto medio, ricavato sulla vecchia idea della
borghesia delle professioni o imprenditoriale.
Quella stella polare non brilla più. Oggi è diventato Quinto
Stato. E’ iniziata un’altra storia.
(fonte: http://furiacervelli.blogspot.it/)
Per un approfondimento a proposito della inadeguatezza delle
categorie usate per analizzare il lavoro leggi anche «I
lavoratori indipendenti non sono ceto medio».
ripreso da: http://comune-info.net