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Istruzione Pubblica e Ceto Medio assaltate da 20 anni


Mentre ai licei si diplomano i figli dei professinisti e si riduce il numero di iscritti all’universià, l’incertezza del futuro lavorativo e la fine del patto tra Stato, mercato e ceto medio segnano un cambiamento profondo cominciato molti anni fa e precipitato con la crisi. L’enorme disoccupazione giovanile è solo un’altra spia del fallimento dell’università e del welfare, così come pensati finora da destra e «sinistra». Tuttavia, per questi motivi studenti e precari, cioè coloro che non hanno più nulla da perdere, con la loro rabbia e i loro saperi, potrebbero giocare un ruolo non previsto nel cambiamento sociale qui e ora.

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La classe operaia non va al liceo. Ma anche i figli del ceto medio ci pensano due volte (esattamente nel 50% dei casi) ad avventurarsi tra i corsi dell’università. Dall’indagine Almadiploma, associazione nata da una costola di Almalaurea, risulta che circa 50 diplomati su 100 intendono continuare gli studi, 10 intendono coniugare studio e lavoro, 22 intendono solo lavorare e 16 sono incerti sul loro futuro. Il 42% di loro tornerebbe indietro per scegliere un altro indirizzo di studi, o un’altra scuola, il 10% ripeterebbe il corso ma in un’altra scuola, il 7% sceglierebbe un diverso indirizzo/corso, il 24% cambierebbe sia scuola che indirizzo.
Tra i 40 mila ragazzi ai quali è stato somministrato il questionario dopo il conseguimento del diploma nel luglio 2012, ci sono conferme: ai licei si diplomano i figli del ceto medio delle professioni, il 37% ha almeno un genitore laureato che ha concluso la scuola medie con un ottimo giudizio, mentre il 24% ha un genitore che possiede un diploma e il 15% è nato in una famiglia in cui i genitori possiedono un titolo di istruzione di grado inferiore. Nulla di nuovo si direbbe, visto che sono confermate le differenze di classe sancite – strutturalmente – sin dalla riforma Gentile che si sono trascinate lungo la storia repubblicana.
Consultando i dati sulle pre-iscrizioni alle scuole fornite dal Miur quest’anno, si nota un leggero incremento nelle iscrizioni agli istituti tecnici e professionali e una leggera diminuzione per i licei: il 31,50% degli studenti ha scelto quest’anno gli istituti tecnici (l’anno scorso era il 30,39%), il 20,60% gli istituti professionali (contro il 19,73% precedente), mentre ai licei si iscrivono il 47,90% dei ragazzi (contro il 49,88%). Dati che confermano una tendenza storica che consiglierebbe di ridimensionare l’allarme con il quale è stato accolto ieri il rapporto. Almadiploma conferma però una realtà strutturale dell’economia della conoscenza in Italia: sono almeno dieci anni che è esplosa la «bolla formativa».

La bolla formativa
Secondo Almalaurea, è dal 2003 che è in atto una diminuzione degli iscritti ai corsi universitari, all’incirca 43 mila all’anno. Questa diminuzione ha riguardato gli studenti provenienti dai tecnici e dai professionali, e non quelli dal liceo. Nel frattempo, anche in virtù della modularizzazione dell’istruzione con la riforma Berlinguer-Zecchino, è cresciuta la quota dei diciannovenni che hanno conseguito il diploma (dal 40% del 1984 al 73% del 2009), ma dal 2003 al 2009 il rapporto tra immatricolati all’università e gli studenti appena diplomati si è ridotto in misura consistente, quasi il 10%.
Ciò è dovuto ad almeno due fattori: l’incertezza del futuro lavorativo, e alla legittima aspirazione al conseguimento di un reddito da lavoro, sin dalla giovane età, nonostante la precarietà della maggioranza dei contratti. E poi c’è il fenomeno che un recente rapporto di Bankitalia ha definito «mismatch» tra le competenze acquisite durante il corso di studio e la mansione svolta sul luogo di lavoro. Circa il 40% dei giovani italiani tra i 24 e i 35 anni in possesso di una laurea almeno triennale svolge dal 2009 un lavoro a bassa o nessuna qualifica.
Pur non avendo intaccato in maniera significativa la percentuale degli iscritti ai licei, frequentati dai figli della classe media e del lavoro autonomo delle professioni, l’esplosione della bolla formativa ha investito principalmente i diplomati, e i laureati, nelle materie umanistiche, cioè i ragazzi che intendono svolgere una professione in cui si identificano; vogliono approfondire un’attività culturale e auspicano in futuro un lavoro ben retribuito.
Tre elementi confermati anche dal rapporto Almadiploma che registra il desiderio dei ragazzi di ottenere un contratto a tempo indeterminato, l’unica condizione per conciliare le competenze acquisite con le mansioni svolte sul lavoro. Le incertezze, e i ripensamenti, raccontati dai diplomati del 2012 confermano che, al tempo dell’esplosione della bolla, esiste una consapevolezza diffusa: solo una tutela sul lavoro, e del lavoro, può garantire una ripresa delle iscrizioni all’università.

Fine del patto tra Stato, mercato e ceto medio
L’incertezza sul futuro cresciuta tra i diplomati del 2012 si spiegano con i dati sulla condizione occupazionale a uno, tre e cinque anni dalla laurea. Nel XII rapporto Almalaurea del 2012, esistono informazioni che permettono di spiegare questa realtà, alla luce di una tendenza pluriennale. Scrive Andrea Cammelli: «Tra il 2004 e il 2008, quindi negli anni precedenti alla crisi, tranne che in una breve fase di crescita moderata, l’Italia ha fatto segnare una riduzione della quota di occupati nelle professioni ad alta specializzazione, in controtendenza rispetto al complesso dei paesi dell’Unione europea. Un’asimmetria di comportamento che si è accentuata nel corso della crisi: mentre al contrarsi dell’occupazione, negli altri paesi è cresciuta la quota di occupati ad alta qualificazione, nel nostro paese è avvenuto il contrario. dell’occupazione, negli altri paesi è cresciuta la quota di occupati ad alta qualificazione, nel nostro paese è avvenuto il contrario».
I dati Excelsior-Unioncamere sul fabbisogno di forza lavoro delle imprese italiane chiariscono questo andamento dell’occupazione intellettuale. Negli ultimi anni è senz’altro cresciuto il peso dei laureati (e dei diplomati) sull’occupazione complessiva. E non poteva essere altrimenti in un paese dove la media dell’acculturazione è bassissima e risente di ritardi storici rispetto ai paesi Ocse. Ma la consistenza della domanda di laureati, pari a 74 mila nel 2011 (il 12,5% di tutte le assunzioni previste) conferma il fatto che il «mercato» (per non parlare della pubblica amministrazione, dove le assunzioni sono bloccate almeno dal 1999 e lo rimarranno per i prossimi 25 anni) non ha bisogno di forza-lavoro qualificata.
Un confronto con gli Stati uniti può essere utile per comprendere la situazione: le previsioni per il decennio 2008-2018 stimano il fabbisogno di laureati pari al 31% del complesso delle nuove assunzioni. In Italia, dunque, non ci sono laureati sufficienti e quelli che si laureano non servono al mercato, né al pubblico. Si tratta di un vero esodo che traduce, dal punto di vista dell’istruzione, la condizione generale di esclusione in cui vive almeno un terzo della forza-lavoro in Italia: il Quinto Stato. Oggi è ormai esploso il patto di cittadinanza istituito nel Dopoguerra tra il ceto medio, lo Stato e il mercato. Quella che definirò in seguito assalto all’istruzione pubblica è il risultato di questa crisi terminale, oltre che l’appendice di un conflitto sociale agito dall’alto che all’inizio degli anni Ottanta aveva già sconfitto le parti più avanzate della classe operaia.
L’esplosione della bolla formativa è l’ultimo esempio di una lunga vicenda politica. Ed è il più doloroso, perché colpisce la vita e il futuro dei figli della «borghesia», come di quelli delle «classi subalterne». L’Italia ha sempre avuto un problema storico nel definirsi, in senso moderno, una “nazione”. Oggi apprende un nuovo aspetto della sua difficile vicenda collettiva: la difficoltà di definire la propria riproduzione materiale e intellettuale secondo i canoni delle società contemporanee.

La coda lunga dell’inoccupazione
L’incertezza del futuro che oggi alligna tra i diplomati, ma anche tra chi è appena entrato nella scuola superiore, come hanno dimostrato i ragazzi che hanno manifestato nell’autunno 2012 contro il governo Monti, è dato dalla consapevolezza del fallimento di un sistema, noto in tutte le famiglie italiane, del ceto medio e non solo.
A questa crisi la classe dirigente, e lo Stato, hanno reagito in maniera inquietante. Come mai, davanti alla necessità di aumentare gli investimenti per la formazione e la qualificazione del lavoro cognitivo, è in atto in Italia un progressivo definanziamento dell’istruzione pubblica? Un taglio iniziato ben prima dei tagli di Gemini e Tremonti che hanno dato a scuola e università un colpo mortale (10 miliardi di euro in 5 anni, dal 2008 al 2013). Statistiche affidabili lo fanno risalire alla prima metà degli anni duemila.
Il definanziamento del sistema formativo, e della ricerca, è l’altra faccia di un processo che ha raggiunto l’apice del suo fallimento con la Gelmini. La riforma dell’università (e della scuola) è stata dettata dalla necessità di aumentare la forza lavoro qualificata (con laurea o diploma). L’aumento c’è stato, ma è stato irrilevante rispetto al fabbisogno. Un fabbisogno che è solo teorico, perché né il pubblico né il privato sono ricettivi, pronti ad beneficiarne. Non da oggi, ma dalla metà degli anni Settanta, quando emerse con forza la realtà della disoccupazione giovanile, e del rischio di inoccupazione dei diplomati e dei laureati.
Nel 1977 i movimenti impetuosi che attraversarono le scuole e le università ne erano la spia. Nel 1989, vista l’impossibilità di trovare una soluzione ad un problema che era nel frattempo diventato strutturale, è iniziato il processo di riforma dell’istruzione pubblica in direzione di una sua maggiore professionalizzazione.
Dopo 23 anni il fallimento definitivo. Complice la crisi, la disoccupazione giovanile aumenta oltre il 36%, diventa evidente la non coincidenza tra le competenze impartite nei corsi universitari e la loro spendibilità sul “mercato” del lavoro. Cresce il numero degli studenti che lavorano durante gli studi, precariamente (il 66% sono fuori corso, oltre un terzo è precario). La decisione è presa: si tagliano 10 miliardi di euro in cinque anni all’istruzione pubblica (8,5 alla scuola e 1,4 all’università) per ridimensionare un’offerta già insufficiente rispetto ad una domanda inesistente di forza lavoro qualificata.
Il mercato, e lo Stato, come parti costituenti della governamentalità neoliberale che sovrintende anche sulle politiche scolastiche e universitarie, hanno deciso di fare a meno di un esperimento fallimentare: la costruzione, anche in Italia, di una «società della conoscenza», o meglio di un’«economia del terziario avanzato» propriamente detta. E, così facendo, intendono utilizzare il lavoro della conoscenza in maniera diversa.
Il modello sociale della miseria
Sul corpo, e la mente, delle lavoratrici e dei lavoratori della conoscenza si è sperimentato per vent’anni un nuovo modello sociale: redditi bassi, o inesistenti, lavoro a prestazione occasionale con contratti o committenze rare o inesistenti, nessuna tutela socio-sanitaria e garanzia dei diritti fondamentali, dealfabetizzazione e deprofessionalizzazione intese come condizioni per affrontare il crollo dell’occupazione generale, e in particolare intellettuale. Il laboratorio dove è stato elaborato questo modello sociale è stato lavoro immateriale in tutte le sue accezioni. Negli anni in cui si riformavano la scuola e l’università, si procedeva alla riforma pensionistica che ha istituito la gestione separata e alla riforma del lavoro che ha legalizzato il precariato di massa.
Con la riforma Berlinguer-Zecchino della scuola e dell’università la sinistra ha voluto riformare l’istruzione con criteri brutalmente economicisti (più laureati, più produzione, quindi maggiore innovazione e ricchezza). Uno scopo è stato raggiunto. Oggi l’intera forza lavoro viene governata secondo gli schemi imposti con la riforma della scuola: modularizzazione dei tempi di vita sulla base della produttività (di esami, sul lavoro); trasformazione della vita in uno scambio tra debiti e crediti; accumulazione di esperienze (corsi, contratti) per raggiungere un obiettivo (la laurea, la fine del contratto) che non ha valore perché scade.
E’ stata così impartita un’etica pubblica, e una mentalità, basata su questa mentalità del lavoro a termine, della precarietà di massa, dello sfruttamento del tempo di vita più che delle reali «competenze» possedute dal laureato o dal diplomato. La valutazione del lavoro in sé tende a scomparire, a favore della disponibilità del soggetto a prestarsi a questa ortopedia sociale trasmessa dalle istituzioni totali di nuovo genere.
L’assalto all’istruzione pubblica ha inoltre trasformato la mentalità del ceto medio. Inizialmente, le riforme «di sinistra» hanno provato a conquistare il suo consenso, facendo leva sulla retorità delle «nuove professioni», sul mondo globale al quale avrebbe preparato l’università e la scuola riformata. Ma la crisi quarantennale è stata più forte e ha sconfitto la resistenza del ceto medio che non ha più creduto a queste favole. E, dalla sua, non poteva contrapporre alla strategia neoliberista delle classi dirigenti le vecchie conquiste del welfare universale, e in particolare dell’istruzione pubblica di massa. Ormai sprofondata nella barbarie della precarietà e nel saccheggio continuo dei saperi e delle competenze dei docenti.

Meritocrazia: il populismo a scuola
Dalla ricerca del consenso si è passati al populismo. I tagli, le accuse di «coporativismo» alla classe docente, e ai sindacati, la retorica della «meritocrazia» contro l’anti-modernità dell’istruzione pubblica (e della ricerca) hanno cercato di solleticare una parte minoritaria del ceto medio delle professioni che credeva nei valori dell’individualismo, della competizione, nella tradizionale politica degli interessi che privilegia «chi lavora e produce» da «chi parla». Nel decennio berlusconiano è stata questa, del resto, l’etica pubblica proposta. Così anche nell’istruzione pubblica.
La destra ha constatato il fallimento della riforma «di sinistra» e li ha portati alle estreme conseguenze: i laureati, o diplomati, sono sempre troppi rispetto alle esigenze di un mercato che si è accomodato sui livelli bassi della produttività. Bisogna scremare questa massa, spingerla a scegliere un lavoro a 15 anni (la riforma dell’apprendistato prima di Sacconi e oggi della Fornero), dimostrare che il corso di studio è valido solo se è professionalizzante. Gli altri corsi o scuole che non «producono» un’élite di specialisti, o una forza lavoro di immediata spendibilità, vanno tagliati.
La «meritocrazia», come modello sociale, è inapplicabile, come sarebbe facile da dimostrare testi alla mano dalla Repubblica di Platone fino ai teorici più scafati del neoliberismo come Hayek, è la rappresentazione di un’esigenza ancora inconfessabile in Italia: la riduzione alla miseria, e allo sfruttamento, di una società «della conoscenza» ristretta, ma ancora sufficientemente ampia, che ha bisogno di tutele e garanzie di diritti per esprimere la sua necessaria complessità.
Il progetto sociale sottinteso dalla «meritocrazia» aspira ad applicare i criteri di produttività – e quindi di «qualità» e «eccellenza» – all’agire umano in quanto tale (in cui rientra la ricerca, ma anche la selezione del «capitale umano»). Un progetto, per inciso, che non può essere condiviso dalla «sinistra», solidamente «egualitaria», anche se rappresenta un’insidia non da poco. Porta, infatti, alle estreme conseguenze le premesse le premesse economicistiche della sua idea di società.
Una proposta che ha mostrato i suoi limiti, al punto che la politica della conoscenza della destra – così come quella del «governo tecnico» – continua a scontrarsi frontalmente con gli ultimi avamposti dell’istruzione pubblica. Entrambe le parti non riescono però a rispondere alla crisi reale scoppiata nel ceto medio che conosce il dramma della precarietà che, presto diventerà, disoccupazione intellettuale di lungo periodo. Tanto la strada del consenso, quanto quella del populismo, non offrono alternative ad una crisi che ha modificato i confini tradizionali dello status professionale e la sua possibilità di riconoscimento rispetto alla sfera sociale, ed economica, allargata.

La strategia riformista è finita
Lo scollamento tra la retribuzione e la mansione lavorativa, tra il processo formativo e l’inserimento e la selezione professionale sul mercato del lavoro, hanno scarnificato il profilo sociale (il suo status) del ceto medio delle professioni, cioè il soggetto che affida all’istruzione la speranza dell’ascensore sociale. La strategia riformista non è riuscita ad occultare la progressiva proletarizzazione del ceto medio, le cui antiche aspirazioni di emancipazione e prestigio sociale sono state diluite nella generale condizione di precarietà. La sconfitta dell’assalto all’istruzione pubblica si può dunque spiegare alla luce di un fallimento politico. In vent’anni, (ma la genesi è sicuramente più lunga), nessuno è riuscito a rimediare alla distruzione del patto di cittadinanza tra ceto medio delle professioni (regolamentate e non regolamentate), Stato e mercato.
Nessuno è riuscito a rimettere in piedi l’illusione umanistica sulla quale si è basata l’istruzione pubblica nei paesi del Welfare. Esiste un percorso di studi, anche a pagamento, in strutture pubbliche, e anche private, e poi master, stage, tirocini e specializzazioni, che rappresentano l’anticamera all’inserimento sociale e professionale. Lo Stato avrebbe dovuto garantire, con l’istruzione e la legislazione del lavoro, il giusto compenso per un percorso esistenziale liberamente intrapreso da una persona che si iscrive all’università, è consapevole dei diritti e ha coscienza del proprio status sociale.

Ceto medio: la stella polare che non c’è
Nella credenza illusoria di un ceto medio è cresciuta la sconfitta di un’intera classe dirigente, di centro-sinistra e di centro-destra che ha eletto questa idea artificiale a propria stella polare. Una classe dirigente rappresentata da baroni universitari (Berlinguer o Zecchino e, da ultimo, Profumo), da grand commis della borghesia imprenditoriale (Moratti), o da oscuri rappresentanti del populismo priapesco del Cesare di turno (Gelmini). Vale a dire, dalle stesse figure sociali che hanno prodotto – o sono state prodotte – dall’ideologia del patto repubblicano del ceto medio nelle sue varie accezioni: a sinistra si volevano creare le “nuove professioni” all’altezza del mercato post-fordista della conoscenza, mezze figure usa e getta dalle competenze incerte che sarebbero state usate dalla pubblica amministrazione, come dall’impresa, il tempo necessario per tappare i buchi del turnover oppure per soddisfare il profitto dei privati. A destra si è creduto di potersi identificare nel fantasma del ceto medio, ricavato sulla vecchia idea della borghesia delle professioni o imprenditoriale.
Quella stella polare non brilla più. Oggi è diventato Quinto Stato. E’ iniziata un’altra storia.

Per un approfondimento a proposito della inadeguatezza delle categorie usate per analizzare il lavoro leggi anche «I lavoratori indipendenti non sono ceto medio».