Un saggio racconta le colpe di un declino culturale che
sancisce la fuga nelle private. Nel 1985 erano stati varati nuovi programmi che
insistevano sulla didattica. Era il punto di forza dell’educazione pubblica
italiana: ma ora anche l’istruzione primaria è al collasso
Da quei banchi passano tutti i futuri cittadini. Difficile
evitare la retorica del “pilastro della democrazia”: lo è per davvero. In più
la scuola elementare conserva nell’immaginario qualcosa di romantico, dal libro
Cuore in poi. Nell’Ottocento il maestro aveva un ruolo sociale definito,
accanto al gendarme e al prete. A questa missione civilizzatrice e
conservatrice si sovrappone, con l’avvento della Repubblica, l’icona del
maestro di frontiera, possibilità di riscatto per i figli dei diseredati,
schiacciato tra la Costituzione e le sperequazioni profonde di un paese
arretrato, mentre le elementari restano quelle uscite dalla riforma Gentile,
verticali e nozionistiche.
E oggi? Nessuno osa discutere la centralità della scuola e
la sua missione educativa, tanto più in una società in piena crisi (economica,
politica, di valori). Ma in cosa consista questa missione, e su come
realizzarla, c’è molta confusione. Chi non ha bambini, difficilmente sa cosa
succedesse dietro il portone di una scuola primaria dopo la riforma del ’90.
Poi nel 2008 il governo comincia a predicare il “ritorno al passato” come
panacea contro tutti i mali. Chi ha più di vent’anni è cresciuto a pane e
maestro unico e può rimanere facilmente sedotto dall’effetto-nostalgia: che
male c’era nel vecchio sistema? Insegnanti, genitori e dirigenti invece
protestano, sono amareggiati, indignati, preoccupati (provate a scorrere le centinaia
di testimonianze su Repubblica.it). Sono davvero tutti dei conservatori miopi e
politicizzati? Che cosa sta succedendo, davvero, dentro la scuola pubblica dei
bambini italiani?
Ci aiuta diradare le nebbie il nuovo saggio di Girolamo De
Michele, La scuola è di tutti (minimum fax, pagg. 338, euro 15) “E’ necessario
combattere una battaglia per le “precise parole”, per l’esattezza“, dichiara.
Allora decodifica i “frames” concettuali dietro gli slogan con cui il
centrodestra ha mascherato la realtà brutale dei tagli di bilancio alla scuola
pubblica e analizza con scrupolo i numeri – solo apparentemente obiettivi – del
Ministero e dei rapporti internazionali. Ma soprattutto, inserisce i problemi
italiani nel quadro più ampio di una crisi (cioè un momento di potenziale
evoluzione, non un’”emergenza”) dell’educazione in atto da decenni a livello
globale.
La scuola è chiamata all’arduo compito di preparare bambini
e ragazzi a muoversi in una società più complessa, fornendo, oltre alle
nozioni, metodi per “imparare a imparare”, anche fuori dai banchi. Non è più
affiancata nell’opera educativa da soggetti forti come parrocchia o famiglia,
ma assediata da una “società diseducante” i cui modelli contraddicono valori e
comportamenti che l’insegnante cerca di trasmettere. De Michele intreccia
questi problemi coi dati allarmanti sull’”analfabetismo funzionale” che
affligge 2/3 degli italiani, e li rende prede facilmente manipolabili nella
società dell’informazione, o sulla mobilità sociale quasi inesistente per i giovani
italiani. Una visione ampia, articolata, che mostra la funzione essenziale
della scuola pubblica in una democrazia che voglia essere veramente tale.
In questo discorso, il caso della scuola primaria è
illuminante. L’Italia, eterna pecora nera, affrontò costruttivamente la “crisi
educativa”, con esiti addirittura eccellenti. Dopo decenni di confronti tra
politici e specialisti di pedagogia e didattica, nell’85 la scuola elementare
si dota di nuovi programmi che mettono al centro il “saper fare” accanto al
conoscere, per una “progressiva costruzione delle capacità di pensiero
riflessivo e critico e di una indispensabile indipendenza di giudizio”, le
competenze relazionali, la capacità di ascoltarsi e stare insieme, oltre alla
disciplina. Su queste basi, nel ’90 si avvia una riforma, che ha passato il
vaglio della Corte dei Conti, la stagione di lacrime e sangue pre-ingresso
nell’euro e un rodaggio faticoso, per regalarci una posizione di eccellenza
nelle classifiche internazionali (TIMMS 2007 per la matematica e PIRLS 2006 per
la lingua). Con buona pace di chi sostiene che servì solo al sindacato per
moltiplicare i posti.
Cosa offriva la primaria pubblica del nuovo millennio?
“Modulo” o tempo pieno, ossia due o tre maestri, specializzati in aree
disciplinari diverse: ben venga un’attenzione specifica per l’area
logico-matematica, in cui l’Italia è sempre indietro. Programmazione
collegiale, cioè più teste che concordano la didattica e rispondono alle
esigenze dei bambini: più sguardi pronti a cogliere i loro disagi come i
talenti. Ore di compresenza: indispensabili per gestire la presenza di bimbi
stranieri che non padroneggiano l’italiano, per il recupero di chi resta
indietro, specie nelle aree più disagiate, ma anche per gite e laboratori.
Tempo scuola più lungo (da 27 a 40 ore) e più ricco: al
pomeriggio non c’era più il vecchio doposcuola, merenda e compiti, ma lezioni e
laboratori, cioè apprendimento attivo. Una ricchezza per i bambini, una
necessità per i genitori che lavorano. A parità di maestri incompetenti e
lavativi, che non mancano mai (la Gelmini parla di premi al merito, ma nessuna
misura è stata varata), il sistema offre più risorse e garanzie. La primaria
pre-Gelmini rispondeva alle esigenze di una società profondamente mutata con
spirito democratico: molto per tutti i bambini e speciale cura per i più
deboli.
Bello, no? Bene, lo stanno demolendo. Il Ministero
raccomanda maestro unico, 4 ore mattutine e taglia i posti. Ma i genitori
chiedono le ore e la qualità del tempo scuola lungo e i dirigenti sono chiamati
all’impossibile quadratura del cerchio. Regna il caos. Classi affollate,
patchwork di maestre per coprire i buchi (alla faccia del bisogno di continuità
rassicurante). I maestri, sottopagati e sotto pressione, ancorché occupati, di
sicuro non lavorano sereni (si parla di merito e mai di motivazione).
Lo scenario tracciato da De Michele è inquietante: c’è un
disegno politico per smantellare la scuola pubblica, per foraggiare il business
delle scuole private, perché l’ignoranza rende le persone più controllabili.
Anche chi non condividesse questa tesi, sarà costretto a domandarsi il perché
di una politica così dannosa. Non è “la solita storia”. Disperdono un
patrimonio, picconano la base sana della piramide educativa. Danneggiano i
bambini e le loro famiglie e la società in cui dovranno vivere, non gli “insegnanti
fannulloni”. Almeno, la smettano di mentire.
di Benedetta Tobagi
da La Repubblica 20 settembre 2010