Un' interessante inchiesta pubblicata sul mensile online "acquaesapone" che analizza le cause, che coinvolgono anche noi, per cui per un giovane vivere in Italia è difficoltoso.
Chiamiamoli non più anziani, ma sempreverdi. La vita si allunga e, per gli italiani, gli anni dei capelli grigi non rappresentano più un incubo. Secondo il rapporto Censis Salute, l’85,8% degli intervistati over 60, ovvero di chi ha varcato la soglia di quella che una volta si definiva terza età, giudica positivamente la propria condizione: fanno ciò che vogliono, si sentono gratificati e contenti di ciò che hanno. Meno del 15% ritiene noiosa o troppo piena di guai la loro vita e, tra ciò che si desidererebbe fare, al primo posto figura l’attività fisica (49,2%), avere maggiori amicizie e rapporti con gli altri (45,3), dedicarsi ad un hobby o viaggiare. Anche per gli studiosi, la terza età non è più un periodo di decadimento, ma una fase dello sviluppo dell’individuo che, come le altre, si accompagna a processi di cambiamento, ma non risulta necessariamente peggiorativa. Dai dati Istat 2007, poi, si apprende che la speranza di vita nel nostro paese è attualmente di 77,7 anni per gli uomini e 83,7 per le donne e recentemente, da studi dell’Istituto Nazionale di Statistica, è scaturito che un nostro neonato su due ha fondate speranze di arrivare a spegnere cento candeline in buona salute.
Culle vuote e nonni al potere
Tutto bene, pare, ma abbiamo appena accostato i termini “Italia” e “neonati”: e qui i sorrisi cominciano a spegnersi. Perché il nostro, assieme al Giappone, è notoriamente quello con la popolazione più anziana e dove il tasso di natalità, con un numero medio di 1,2 figli per donna, rimane tra i più bassi in Europa (media 1,4) e nel mondo (media 2,8). Senza contare che una grossa mano alla cicogna lo danno i nuovi italiani figli di immigrati. Solo la Spagna nella UE ha un indice inferiore (1,1), mentre all’estremo opposto c’è l’Irlanda, con una media quasi doppia (2,0).
Culle vuote, dunque, ma il nostro è anche il Paese della gerontocrazia, con una classe dirigente tra le più vecchie d’Europa. In seguito ai rivolgimenti economici degli ultimi tempi, sono proprio coloro “che hanno intorno a trent’anni” ad aver pagato il prezzo maggiore alla crisi: sono stati i primi, affacciandosi al mondo del lavoro in concomitanza dell’entrata in vigore dell’euro, a vedere dimezzato il potere d’acquisto del proprio salario; sono loro ad aver sperimentato per primi le incognite del precariato, e, fa sapere l’ISTAT, in seguito all’attuale congiuntura economica hanno perso il lavoro quattro volte in più rispetto ai loro genitori. Una generazione compressa tra l’aumento della disoccupazione generato dalla crisi mondiale e la mentalità con cui è stata formata: quella, per intenderci, del posto fisso e delle mansioni canoniche.
La trentenne che cerca il lavoro da segretaria, o da operaia, commessa, insegnante, avrà sempre più difficoltà ad essere inquadrata “a tempo indeterminato” e dovrà probabilmente cambiare spesso occupazione. Sicuramente meglio si troverà invece la trentenne che cercherà di capire di cosa davvero il mondo del lavoro ha bisogno, cercando di diventare imprenditrice di se stessa, senza attendere troppo aiuti “istituzionali”.
L’Italia “regala” i giovani
L’emigrazione attuale non è più fatta di braccia, ma di cervelli, di teste cinte dal lauro accademico: emigrano in decine di migliaia l’anno, regalando ad altri Paesi una ricchezza che l’Italia costringe a portare altrove. Il nostro non è un Paese per giovani, ha sintetizzato Confindustria parafrasando la metafora del film dei fratelli Coen, in uno studio realizzato, mettendo in fila una serie di numeri, profili e previsioni sul mondo giovanile e l’istruzione. Qualche dato? Si calcola che il sistema Italia abbia speso oltre un miliardo di euro per l’istruzione di 11.700 giovani professionisti che ora lavorano (e producono) oltre confine. L’importo è stato quantificato dal blog “La fuga dei talenti”, incrociando gli ultimi dati Ocse (riferiti al 2006) sulla spesa per l’istruzione in Italia e il Rapporto sulla situazione sociale nel Paese del Censis, riferito allo stesso anno. L’istruzione di ciascun giovane italiano dalla scuola primaria fino all’Università costa infatti, secondo l’Ocse, oltre 100.000 euro. Se la moltiplichiamo per il numero dei giovani espatriati solo nel 2007 (almeno 11.700), tale esodo costa all’Italia oltre 1 miliardo e 170 milioni di euro investiti per la loro formazione, senza contare quello che non producono per noi. I neolaureati mettono le loro capacità al servizio di aziende e istituzioni straniere, che le investono in attività produttive e beneficiano dei loro frutti economici, e si tratta di fatto di un investimento “regalato” dall’Italia, dovuto in buona misura all’assenza di meritocrazia e alla poca partecipazione attiva degli under 40 nei processi decisionali del nostro Paese. Il processo non è certo controbilanciato dall’afflusso di “cervelli” stranieri nella penisola: come ha documentato la recente ricerca della Fondazione Rodolfo De Benedetti, in Italia - per ogni cento laureati nazionali - ce ne sono 2,3 stranieri contro una media UE di 10,45.
Una scuola di serie B
Ancora in tema di istruzione, i dati offerti da Confindustria non sono affatto incoraggianti. Il nostro sistema non riesce a raggiungere affatto i parametri europei fissati a Lisbona: i giovani che lasciano gli studi prematuramente (dopo l’istruzione di primo grado) sono il 19,8% contro l’obiettivo posto del 10%; il tasso di istruzione superiore è solo del 76% contro il traguardo dell’85%, i giovani italiani entrano nel mercato del lavoro mediamente tre anni dopo i colleghi europei e la nostra classe insegnante è la più vecchia d’Europa: un solo insegnante su cento (!) ha meno di trent’anni; in compenso, si fa per dire, l’età media dei ricercatori è ben oltre i 40. Abbiamo un quarto di borse di studio rispetto alla Francia e spendiamo per il diritto allo studio la metà della media UE. L’età media dei membri dei Consigli d’Amministrazione delle banche è di 15 anni superiore alla media continentale e, da un'analisi condotta sulla banca dati del Who's who (il database dei top manager pubblici e privati), risulta negli ultimi vent’anni un sensibile aumento dell'età dei dirigenti industriali italiani: si è passati da una media di 56,8 anni a una di quasi 61 (60,8 anni).
Che fare?
La ricetta di Confindustria
«Dobbiamo restituire il futuro ai nostri giovani», ha dichiarato il Presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia nell’illustrare 4 proposte che sono state presentate al vaglio del Governo. Al primo punto figura l'abolizione del valore legale dei titoli di studio; seguono la flexicurity alla danese, (non è una parolaccia, significa che il giovane ha diritto a una formazione continua e parallela in cambio di obblighi progressivi di accettazione delle proposte di lavoro): la Danimarca ha introdotto questo sistema nel 1994 e da allora la disoccupazione giovanile si è ridotta dal 30% al 12,5%, la più bassa in Europa. Poi un piano di patrimonializzazione giovanile per permettere il proseguimento degli studi anche a chi parte da posizioni sociali svantaggiate e il compimento della riforma degli Istituti tecnici. Le proposte verranno presentate anche al Governo per trovare sbocco legislativo. «L'obiettivo - spiega la Marcegaglia - è fare di tutto perché i giovani non siano più i grandi esclusi di questo Paese».
Libere professioni
Buio pesto anche nelle libere professioni. Il giornalismo, la medicina, l'avvocatura e il notariato hanno tempi di accesso lunghissimi; per di più stage, tirocini gratuiti e condizioni di estremo precariato o sotto-occupazione si susseguono senza soluzione di continuità fino a oltre 40 anni. Qualche esempio: l'età media dei praticanti giornalisti è di 36 anni; i medici sotto i 35 anni sono poco meno del 12%, mentre i 35-39enni, rispetto a 11 anni fa, sono diminuiti del 13,8%. Gli avvocati, pur iscritti all'albo, sono a loro volta costretti per anni e anni a un ruolo umiliante di passacarte, e tra i notai due su dieci sono figli d'arte.
Giovani senza lavoro: ma dipende sempre dagli altri?
In Germania all’età di 18 anni la quasi totalità dei giovani esce dalla famiglia: per studiare lontani, mantenendosi spesso con piccoli lavori, o iniziare un’esperienza lavorativa. Certo la famiglia è sempre un paracadute pronto a salvarli dai fallimenti, ma i ragazzi che “tornano” a casa sono una percentuale bassissima. Stessa cosa negli Usa, in Gran Bretagna, in Francia, ecc... Lo sanno bene anche tutti i giovani italiani che hanno vissuto per un periodo all’estero, dove certo non affrontavano la vita con la passività che magari avevano in Italia.
è vero che il sistema italiano è meno meritocratico, più nepotista, più governato dai “vecchi”, ma quanta energia, quanta creatività dedicano i ragazzi italiani alla ricerca del lavoro? Quanto sono disposti a rischiare? Quanto davvero conoscono le proprie potenzialità?
Stipendio più basso
Lavori meno qualificanti, minori possibilità di emergere, retribuzioni più basse: se nel 2003 il guadagno medio lordo di un giovane d'età compresa tra i 24 e i 30 anni - si legge nel rapporto del Forum Nazionale dei Giovani e del Cnel in collaborazione con Unicredit Group - era di 20.252 euro, rispetto ai 25.032 euro percepiti dagli over50, nel 2007 il divario si è significativamente ampliato: a fronte dei 22.121 euro corrisposti agli under30, i 51-60enni hanno percepito una retribuzione media lorda di 29.976 euro.
Politica
I neoparlamentari hanno un'età media di 51 anni. Dal 1992 a oggi i deputati under35 non hanno mai raggiunto la soglia del 10% degli eletti, fatta eccezione per la XII° Legislatura nella quale costituivano il 12,4%. Tra i partiti la Lega Nord, unica eccezione, presenta un 20,1% di eletti tra gli over35 contro l'11,4% tra i 25-35enni; per gli altri partiti la percentuale di eletti in età matura è quasi il triplo (47,4%). E quindi i giovani sino ai 25 anni, che costituiscono il 18,7% della popolazione maggiorenne, hanno una rappresentanza pari solo a un terzo dell'incidenza effettiva sugli elettori.
Sotto i 35 anni, 1 su 2 è precario
Oltre un collaboratore su due con meno di 35 anni è precario: secondo l'Istat, il 73,1% dei giovani che alla fine del 2006 erano assunti con un contratto di collaborazione, dopo un anno erano ancora nella medesima posizione. Ovviamente, chi lavora per 10 anni a progetto, come collaboratore o a tempo determinato, ogni volta è costretto a ricominciare dalla base della piramide, rimanendo escluso dalle posizioni di vertice.
Vecchi prof
Il mondo accademico somiglia sempre più ad un ospizio: tra i professori ordinari l'età media è di 59 anni. Nel dettaglio, la metà dei professori di prima fascia ha superato i 60 anni e circa 8 docenti su 100 (7,6%) hanno compiuto i 70 anni. Non va meglio per le fasce più basse: l'età media dei professori associati è di 52 anni e quella dei ricercatori è di 45. Solo il 3,4% di chi ottiene un dottorato di ricerca, infine, ha meno di 28 anni.
di Maurizio Targa