Nel ringraziare Ipnos x la brillante e coraggiosa idea di aprire un blog dedicato a noi prof, desidero iniziare la mia collaborazione proponendo un articolo di Maurizio Tiriticco pubblicato su ScuolaOggi che affronta il tema dei cambiamenti linguistici e dei fenomeni con cui la scuola si deve confrontare dal momento che viviamo in una società in continuo cambiamento. Visto che abbiamo a che fare con i "nativi digitali", sarà il caso che cerchiamo di capire quali caratteristiche stanno emergendo nell'uso linguistico e come dobbiamo orientare la nostra azione in merito.
Il dibattito è aperto!
La lingua cambia, ma come e perché?
La questione della lingua non è cosa d’oggi! Se ne è sempre parlato, e scritto, ma solo
in particolari momenti della nostra storia, quando un certo assetto sociale è investito da
una crisi di cambiamento che lo attraversa in tutte le sue strutture socioeconomiche ed
ovviamente anche in quelle culturali e linguistiche. Il De vulgari eloquentia dantesco
affrontava il problema della lingua e sosteneva, anche se in latino, che il volgare poteva
veicolare concetti forti di cui tutti avrebbero potuto fruire, e non solo quei dotti che,
mentre in casa macinavano volgare, quando scrivevano scimmiottavano malamente il
“latino di Cicerone”, ammesso poi che il latino medievale avesse qualcosa in comune con
quello cosiddetto classico. Della lingua si è discusso in età rinascimentale e in età
barocca, tutta intesa quest’ultima ai “distinguo” tra le finalità dialettiche, dimostrative, e
quelle retoriche, persuasive. Per certi versi anticipavano quello che oggi è il clou del
linguaggio pubblicitario, sempre attento a descrivere la bontà e la necessità del prodotto
reclamizzato, ma anche a convincere il potenziale cliente! Di lingua si è discusso a lungo
in età risorgimentale quando l’opzione per il toscano, più o meno lombardizzato, mise
all’angolo le altre lingue bollandole come dialetti! Sono solo fugaci accenni che
meriterebbero maggiore spazio, ma ciò che mi interessa sottolineare è il fatto che non è
nuovo discutere di lingua quando si attraversano profonde modifiche nell’assetto
socioeconomico di un Paese.
Ma ogni modifica ha le sue caratteristiche e queste dell’Italia di oggi sono molto
diverse e ben più complesse rispetto a quelle che nel corso della nostra storia si sono
affrontate. Un tempo la questione della lingua, fatta esclusione del periodo
risorgimentale, non riguardava la popolazione nella sua interezza, ma ristretti gruppi di
parlanti e – non dimentichiamolo – di scriventi, considerando che la grande maggioranza
della popolazione era esclusa dalla lingua letto/scritta. La questione che si poneva non
era solo quella del modello da adottare, ma anche di come estendere a gruppi più ampi di
intellettuali i saperi che via via si venivano costruendo e consolidando. Insomma i
confronti erano di natura interlinguistica, se si può usare questa espressione. Oggi la
situazione è ben diversa, perché entrano in gioco fattori nuovi, extralinguistici, direi,
quello della strumentazione adottata e quello degli utilizzatori.
In primo luogo occorre considerare l’impatto provocato da quei complessi strumenti di
comunicazione che giorno dopo giorno le tecnologie della comunicazione ci propongono.
Non fu la stessa cosa, quando la carta e la stampa intervennero a misurarsi con la
pergamena, il papiro, l’amanuense, perché la strumentazione non metteva in discussione
la natura e la struttura della lingua, fatto sempre salvo il principio che il mezzo, anche se
non è il messaggio, come vogliono alcuni, lo condiziona sempre fortemente. In secondo
luogo c’è la questione degli utilizzatori. La carta stampata permetteva l’ampliamento della
platea degli utenti i quali avrebbero dovuto via via misurarsi con lingue scritte
riconosciute e diffuse ed eventualmente abbandonare la lingua dell’uso corrente, della
famiglia, del piccolo gruppo, il linguaggio cosiddetto ristretto. Gli utilizzatori di oggi,
invece, sono già di per sé portatori di un linguaggio veicolare comune molto ampio e
diffuso, quella delle cosiddette tribù, termine che non a caso ritorna in tanti spot
pubblicitari di telefonini e prodotti similari. E, soprattutto, sono alfabeti!
Mentre nei tempi passati c’era una lingua letto/scritta che si proponeva ed imponeva
nei confronti di tante lingue parlate e a poco a poco finiva con l’imporsi su di esse o di
riconoscerle come dialetti, vernacoli o quello che fossero, a volte anche con una loro
dignità letteraria (un Belli e un Porta fanno testo in merito), oggi il letto/scritto si deve
misurare con altrettanti letto/scritti, estremamente diffusi, ma sulla cui dignità di lingua
semanticamente e sintatticamente ricca e corretta si possono sollevare seri dubbi.
In altri termini, va sottolineata la seguente differenza: il nostro parlante fino a ieri
frequentava la scuola ed apprendeva quella lingua letto/scritta che lo avrebbe affrancato
dall’ignoranza – termine da usare con tanto di virgolette, ovviamente – e che gli avrebbe
consentito di misurarsi con i tanti Gianni – ricordando Don Lorenzo – padroni del “codice
elaborato”; il parlante di oggi frequenta la scuola, ma propone già una sua lingua
letto/scritta appresa da quelle tante istanze informali e non formali di cui la nostra
società affluente e tecnologica è straricca.
Si è così creata, e nel corso di un tempo relativamente breve, una situazione assai
complessa: da una lato c’è una lingua italiana che si è venuta costruendo ed arricchendo
nei secoli, forte e chiara per quanto riguarda sia il lessico (la ricchezza dell’enciclopedia e
del vocabolario) che la grammatica (la fonetica, l’assetto morfologico e quello sintattico);
dall’altro c’è un pullulare di linguaggi che assolvono brillantemente ai compiti della
comunicazione interpersonale, ma scivolano infelicemente quando si devono misurare
con il letto/scritto consolidato dalla tradizione. Di qui tutte le lamentele di insegnanti
della scuola secondaria e dell’università che fanno fatica a dialogare con soggetti la cui
strumentazione linguistica è di un’estrema povertà, lessicale e sintattica.
Ma la cosa più grave è che, se è vero, com’è vero, che tra pensiero e linguaggio il
rapporto è dialettico, a povertà di linguaggio corrisponde povertà di pensiero. Ad
esempio, l’uso dominante della coordinazione, a scapito della subordinazione, non facilita
i processi di analisi, di ricerca, che richiedono, invece, un pensiero/linguaggio articolato
e complesso. Così, gli allora, i poi, i dunque, gli anche, i cioè abbondano e sono sostituiti
da mille interiezioni, che cavolo, per la miseria, che palle e mille cosiddette parolacce che
in effetti parolacce non sono più, ma semplici e poveri nodi che permettono di legare
proposizioni e condurre a compimento il discorso. Di qui la decadenza di alcuni tempi
dell’indicativo, del futuro anteriore, del trapassato prossimo, dello stesso modo
congiuntivo.
La questione non è semplicemente linguistico-formale; il fatto è che è difficile
elaborare pensieri complessi, quanto mai necessari, oggi, per leggere e comprendere certi
fenomeni della realtà contemporanea. Il contadino di un tempo era considerato
analfabeta perché non sapeva leggere e scrivere, ma era assolutamente alfabeta in un
contesto socioeconomico in cui il linguaggio letto/scritto non era necessario; e la sua
ricchezza linguistica – ed intellettuale – gli era data dalla tradizione orale da cui traeva
tutti gli strumenti per sopravvivere, lavorare la terra e socializzare con il suo gruppo.
Forse è veramente analfabeta un certo giovane di oggi che, ristretto nella
comunicazione tramite telefonini, blog, chat, youtube, difficilmente può accedere a quella
complessità che il mondo contemporaneo ci propone in dosi sempre più massicce.
Ovviamente senza nulla togliere a certe soluzioni veloci a cui ci costringe l’esiguo numero
di caratteri da usare per gli sms. Del resto la stenografa di un tempo aveva il grande
merito di scrivere con la stessa rapidità del dettante.
Da quanto detto emergono una constatazione ed una prima conclusione: il problema
della lingua oggi non va assolutamente posto con i criteri di un tempo, quando esisteva
un modello a cui tutti i parlanti/scriventi dovevano attingere; è il modello stesso che va
messo in discussione per renderlo flessibile a certe istanze che vengono “dal basso” – se
si può dir così – e che costituiscono interessanti segnali per un rinnovamento
complessivo della comunicazione linguistica. A mio avviso, ci troviamo di fronte ad una
fase evolutiva estremamente interessante e nuova, che non possiamo affrontare con gli
strumenti di un tempo, quando, cioè, sulla base di un lessico e di una grammatica
consolidata, si insegnava a leggere e scrivere, e poi anche a parlare e ascoltare, ai nuovi
nati e/o ai nuovi arrivati (questi ultimi sono oggi in numero crescente). Le sollecitazioni
che vengono “dal basso” non sono un assalto alla diligenza, sono manifestazioni di
necessità comunicative nuove con cui occorre fare i conti. Insomma, non dobbiamo fare i
saccenti che correggono, ma i maestri che comprendono. A questo punto il discorso si fa
complesso e non vorrei dar luogo a cattive interpretazioni.
E’ solo una sollecitazione per pensare insieme ed insieme operare, sul campo della
ricerca da un lato, su quello della scuola dall’altro, con tutti gli opportuni scambi di
esperienze e di riflessioni. E, se non erro, la Crusca, intelligentemente condotta da
Nicoletta Maraschio, non è insensibile ad un discorso di questo tipo.
Roma, 18 gennaio 2010
Maurizio Tiriticco